Intervista ad Antonella Veltri
di Viviana Santoro
Perché, dopo l'ondata di forte emozione che il barbaro assassinio della giovane Roberta Lanzino aveva suscitato, non si dimenticasse, perché altre donne non subissero violenza, perché potesse nascere consapevolezza di cosa possa volere dire la violenza, perché le donne imparassero a parlare ed ascoltarsi in un "loro" luogo: per tutto questo nasce a Cosenza nel dicembre dell'88 il Centro contro la violenza alle donne "Roberta Lanzino". E ha fatto tanto cammino, grazie all'impegno delle socie che vi lavorano da volontarie. Sono nati in questi anni forti legami con le donne delle altre associazioni calabresi, ma anche con quelle presenti sul territorio nazionale, con le Case d'accoglienza e con tanti altri Centri di Donne. Quella che si suole dire "una rete" è così nata, per un bisogno comune, per il desiderio di dirsi e raccontarsi, per imparare ad ascoltare, per rompere i silenzi di secoli e, con essi, il mutismo imposto alle donne e spacciato per "virtù", nelle società che su questi silenzi hanno costruito e nutrito la cultura misogina. Moltissime le iniziative che in questi dieci anni il Centro ha portato avanti: incontri e dibattiti su tematiche specifiche, attività di formazione per una nuova politica della relazione, seminari regionali e nazionali, sostegno alle donne a livello istituzionale, costituzione di parte civile nei processi per stupro, collaborazione col "Progetto Donna" della Regione Calabria, il Telefono Rosa, lo Sportello Donna. E nel '99 il coinvolgimento di cinque scuole superiori di Cosenza nel progetto "Paideia", per una cultura della non violenza, nel rispetto dei generi.
Più di dieci anni fa nasceva il Centro "Roberta Lanzino"... cosa è cambiato nella realtà cosentina e calabrese, grazie al lavoro delle donne del Centro?
Come siete cambiate, voi al Centro, in tanti anni di lavoro...avete dato alle altre...e le altre cosa vi hanno dato?
E' stato difficile penetrare nell'universo femminile e nei drammatici suoi silenzi?
Le donne meno giovani...quelle educate a tacere...come guardano al telefono rosa?
Il progetto Paideia...la realtà dei giovanissimi...Come si sono posti davanti al discorso della violenza...c'è la possibilità di iniziare un discorso sulla cultura della non violenza?
Avete portato Myia in undici centri calabresi...le reazioni fra gli adulti e quelle fra i giovani.
Il progetto Myia ha dato maggiore visibilità al nostro centro e alla nostra azione sul territorio regionale. E' un progetto che si inserisce in una campagna europea di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulla violenza fra le mura domestiche.
L'esistenza stessa di questo luogo politico e d'accoglienza, di riflessione e d'elaborazione sull'appartenenza di genere e sul suo significato, rappresenta un valore, un riferimento per tutte le donne calabresi.
In un recente incontro al Centro una donna, precedentemente accolta da noi, ha sottolineato la ricchezza in sé di questo posto, l'importanza di esistere anche se non accogliesse alcuna donna anche se nessuna donna telefonasse.
La realtà cosentina, quella regionale, sono cambiate anche grazie a noi, al contributo che abbiamo dato per fare uscire fuori le donne dal silenzio mortificante vissuto nella sopraffazione e nel disagio della relazione con i partner, con i compagni. I primi anni del Telefono Rosa sono stati vissuti da noi interrogandoci sul significato del silenzio: nessuna telefonata arrivava al nostro Centro. Non era certo specchio di una situazione di serenità e di tranquillità delle donne calabresi, piuttosto spia di quanto lavoro ci spettava da fare per rompere il silenzio.
Così abbiamo iniziato attività di vera e propria sensibilizzazione con gli strumenti e le disponibilità finanziarie (poche) che avevamo a disposizione: interventi mirati sul territorio, dibattiti, iniziative varie. Tutto questo si è svolto parallelamente alla nostra formazione con donne di altri centri antiviolenza che in Italia negli anni '90 avevano già aperto centri di ascolto e di accoglienza.
Vedi, non c'è e non c'è stata improvvisazione e superficialità nella nostra pratica.
Abbiamo imparato che attraverso la relazione tra donne è possibile uscire dalle situazioni di disagio, di sopraffazione, di violenza.
Una donna non è più sola, di fronte alla violenza subita, non è ineluttabilmente vittima, sa che ci sono altre donne che, senza pregiudizio, la possono ascoltare, aiutare in un percorso di uscita dal disagio che pone la donna stessa al centro della relazione con i suoi bisogni e le sue risorse.
Siamo un gruppo di donne abbastanza eterogeneo per provenienza e formazione culturale. Ci siamo ritrovate tutte, all'indomani della brutale uccisione di Roberta, con la voglia di rifiutare non soltanto la violenza in sé, ma quella speciale ed antica violenza agita sul genere femminile e di rendere visibile ciò che la società preferisce lasciare occulto e taciuto. Un gruppo di differenti ricchezze che ha, pur vivendo esperienze e vite diverse, pur avendo storie, convinzioni e valori morali variegati, hanno scelto un percorso che ha tenuto conto di tutto ciò e ha anzi dato valore alla pratica della relazione, al partire da sé, all'agire in comune. Sono così emersi significati e desideri comuni e forti, l'appartenenza di genere, il riconoscimento della violenza come dato diffuso e insopportabile, la voglia di costruire con le donne un nuovo modo di essere solidali nella reciprocità relazionale, l'obiettivo di fare del nostro Centro un luogo di parte, dalla parte delle donne, il luogo del riconoscimento del proprio valore, il luogo positivo della ricostruzione, il luogo della politica delle donne a partire dal quale si afferma il nostro genere: ecco il senso forte dell'appartenenza di ognuna di noi al Centro
Il problema per noi tutte non è vincere, non è avere più potere. Come donne del Centro abbiamo avuto sin dall'inizio l'ambizione di riconquistarci un nostro tempo, di sottrarci all'idea secondo la quale il tempo ha una sola direzione: la memoria (intreccio dei mille fili della vita quotidiana), e l'agire comune partendo da sé, ci ha permesso, ci permetterà, la costruzione di una nostra lingua comune, ci darà la possibilità di dare nome alle cose secondo i nostri autonomi desideri, secondo la nostra autonoma esperienza.
L'avvio dell'attività di ascolto telefonico è stato caratterizzato dal silenzio.
Poche le telefonate nel primo anno. Sapevamo bene che il silenzio non corrisponde ad una diffusa situazione di agio e di benessere delle donne, purtroppo. Sapevamo che il silenzio delle donne è la storia stessa del nostro paese.
Con naturalezza, dinanzi al telefono muto, abbiamo rispettato questo silenzio; abbiamo capito che il silenzio delle donne andava interpretato come il grande contenitore del coraggio femminile. Da questa lettura, il vincolo, il silenzio cioè, ci ritornava come risorsa, come segnale di una grande forza da scoprire insieme alle donne.
E allora abbiamo lavorato non per infrangere o mortificare questo silenzio, ma per trovare quali forme di comunicazione potevano essere più adatte e rispettose per raggiungere le donne per far sapere loro che noi eravamo lì per loro.
La donna e non il suo problema al centro della relazione: il suo bisogno e non il nostro punto di vista nella costruzione del progetto; i tempi della donna e non la nostra ansia di fare nel percorso di uscita dal disagio; il progetto della donna e non il nostro perché ogni donna ha una storia e la sua storia va accolta senza giudizio. E' così che il nostro pensiero politico è diventato servizio, e la metodologia del servizio si è intersecata e fa tutt'uno con il progetto politico. Ogni piccolo aspetto del servizio è un pezzetto di progetto perché tende a rafforzare la donna in difficoltà e lo fa dandole e dandosi reciprocamente valore, facendone emergere il perduto e profondo senso della propria libertà, la possibilità di ritrovare per intero se stessa smarrita nella quotidiana frequentazione della violenza.
Scegliere autonomamente e consapevolmente.
Recentemente è venuta al centro una donna di circa sessanta anni raccontandoci la sua storia di quotidiane violenze fisiche e psicologiche vissute da oltre 30 anni in famiglia. Ha raccontato di sé, della sua capacità di contenere la sofferenza ed il disagio, per salvaguardare l'unità della famiglia ed il "bene dei figli". Era venuta a conoscenza del nostro centro dal progetto Myia e aveva provato il desiderio di parlare, di dare voce e visibilità al suo disagio. Con la donna abbiamo iniziato un percorso di accoglienza, raccogliendo ed elaborando il suo bisogno, la sua richiesta, al momento non ancora chiara e definita. Tantissimi poi i contatti telefonici che riceviamo ed ai quali prestiamo poi l'ascolto necessario invitando le donne a venire al centro per stabilire insieme un progetto di uscita dal disagio. La prima richiesta spesso è di consulenza legale per avviare una separazione.
Il progetto formativo che, dal mese di marzo a quello di dicembre del 1999, abbiamo condotto in cinque scuole superiori delle città di Cosenza e di Rende, interessando un consistente numero di giovani, aveva tra gli obiettivi il riconoscimento dei generi per una corretta relazione tra gli individui.
Mi spiego meglio.
La diffusione della cultura della non violenza è un passaggio delicato che presuppone l'affermazione di due generi, il genere femminile e quello maschile; parlo, ovviamente, di quella antica violenza agita dal genere maschile su quello femminile.
Questo progetto ci ha dato la possibilità di avvicinarci ai giovani, di entrare nelle loro aule, di cogliere, seppure attraverso le poche ore che abbiamo trascorso insieme, le loro opinioni e il loro pensiero su quanto le donne, il movimento delle donne, ha costruito per l'affermazione di importanti diritti e non solo. Li abbiamo ascoltati, abbiamo lavorato insieme con una metodologia interattiva che li ha coinvolti facendoli sentire protagonisti e attori di quanto si elaborava e si produceva. Non è stato facile...Abbiamo riscontrato, soprattutto nella sessione dedicata alla storia del movimento delle donne, una resistenza ed un senso di disagio per un pezzo di storia che viene visto come lontano e appartenente ad un gruppo di femministe arrabbiate. Unanime il rifiuto della violenza, della violenza tout-court. Più articolate e varie le posizioni sulla violenza agita dal genere maschile sul genere femminile.
Dall'elaborazione dei dati del questionario distribuito ci pare interessante evidenziare due dati: il primo riguarda la percezione della violenza riconosciuta come tale, da ambo i generi, se riferita a luoghi ed a persone "altro da sé", più difficilmente riconoscibile e nominabile quando è vicina o vissuta. L'altro aspetto riguarda la scuola vissuta come luogo prescelto per raccogliere disagi e difficoltà. Le donne hanno mostrato una maggiore facilità al dialogo e all'apertura sul tema della violenza.
Per una buona riuscita della campagna abbiamo attivato rapporti con le amministrazioni comunali, nostri principali referenti negli incontri territoriali, ma anche con i mass-media, con i consultori, con le scuole, con le forze dell'ordine e con magistrati e avvocati.
Più difficile è stato raggiungere la società civile: le donne e gli uomini della società calabrese sono stati coinvolti attraverso messaggi di comunicazione forti. Il grosso pugno che campeggia sul manifesto di 6 metri per 3 affisso sui muri delle undici città calabresi rappresenta la metafora dei diritti negati non solo per tante donne calabresi.
Oggi possiamo disporre di una rete di rapporti regionali necessaria per intervenire anche a distanza in situazioni d'emergenza e di denuncia di violenze. Il senso della campagna in fondo è anche questo. La rete ci sarà utile quando apriremo la casa di accoglienza per le Donne.