di Simone Misiani
Il Mezzogiorno, dopo essere stato, per alcuni anni, luogo della vergogna e della dimenticanza,
una sorta di polo negativo dello Stato - oggi sembra essere tornato al centro dei
principali programmi dei partiti politici, del governo e anche dell'opposizione. I termini del dibattito si sono andati profondamente modificando rispetto al passato.
A cinquant'anni dall'eccidio di Melissa occorre ripensare le categorie del Mezzogiorno
e del meridionalismo nel dibattito politico italiano; interrogarsi sul significato delle lotte contadine, in relazione alla grande trasformazione dalla società al
sistema post-fordista. Ne discutiamo con Giacomo Schettini.
Le lotte per la terra e la rottura del "blocco agrario" rappresentano un momento costitutivo
della transizione dal fascismo alla democrazia repubblicana.
Nell'immediato dopoguerra le occupazioni di terre incolte e di demani ebbero inizio,
n quasi tutto il Mezzogiorno, già nel 1943, proseguirono in forme più "avanzate"
(anche nei confronti di alcune aziende capitalistiche) negli anni '44, '45, '46.
Non coinvolsero, per un'immatura visione delle alleanza sociali, la gran parte dei soggetti
del composito arcipelago contadino e le istituzioni di base, i Municipi. Esse influenzarono
n modo anche rilevante alcun luoghi importanti del potere. l prefetto Ponte a Matera, nel 1946, un anno prima dei decreti Gullo, emise un decreto che sanciva l'imponibile
di manodopera e la coltivazione delle terre occupate. Negli anni '46, '47 e '48 altre
questioni presero il centro della scena: la preparazione della Costituzione, la crisi del giugno del '47, con la cacciata delle sinistre dal governo, il risultato
elettorale del 18 aprile 1948. Il clima favorevole alla riforma agraria dell'immediato
dopoguerra, come il Sen. Giuseppe Medici riconosce, era mutato. Le occupazioni delle
terre ripresero agli inizi del 1946 con più maturità strategica e con maggiore capacità
organizzativa (nel '48 si erano tenute in tutto il Mezzogiorno le Assisi per la terra
e per la Rinascita). Le sezioni del PCI e le Camere del Lavoro erano i punti di riferimento più attivi e riconosciuti. La polizia di Scelba reagì violentemente e, tra
l'ottobre e dicembre, sette lavoratrici e lavoratori caddero sotto i suoi colpi.
Mi chiedo: quei poveri morti sui calanchi di Melissa, Montescaglioso e Torremaggiore
avranno o no un posto nell'indagine della commissione chiesta e ottenuta da Cossiga?
La rottura dell'unità antifascista a livello internazionale e nazionale, la rottura
dell'unità sindacale, il 18 aprile 1948 e l'affermazione delle forze conservatrici,
che prendeva la forma dell'anticomunismo, furono le principali cause dell'inasprimento
delle lotte e delle mancate risposte alla necessità di una profonda riforma degli assetti
fondiari e dei patti agrari, che perpetuavano rapporti feudali.
Le lotte agrarie avevano dato il colpo di grazia al blocco agrario, che per un secolo
aveva definito e garantito i rapporti del Mezzogiorno con lo Stato e il Nord. Doveva,
quindi, strutturarsi un nuovo blocco storico. La sua composizione e la natura degli
interessi rappresentati sarebbero state decisive nel processo di costruzione del modello
di sviluppo del Mezzogiorno nella democrazia repubblicana.
I rapporti di forza politici e sociali risultarono sfavorevoli al mondo contadino.
Prevalsero gli interessi conservatori e ripresero pratiche trasformistiche che introdussero
elementi di continuità col passato. Miglioli, confinato a Ripacandida (Pz), in una lettera ai compagni di Lavello sosteneva che la riforma agraria non poteva attuarsi
attraverso compromessi con la borghesia e non era cosa da "rivoluzionari con i sospensori".
E infatti la riforma agraria non si fece.
La Riforma Stralcio del 1950 comportò l'esproprio di appena 700.000 ettari, quasi
tutti riguardanti aziende superiori ai 500 ettari, le quali complessivamente comprendevano
una superficie agraria di 10 milioni di ettari, mentre i patti agrari non furono
per niente toccati. Fu, quindi, bloccato sul nascere il progetto di uno sviluppo dell'agricoltura
fondato sulla piccola e media proprietà contadina, sugli investimenti per la integrazione
tra industria e agricoltura, per l'uso civile e produttivo dell'acqua, per un rapporto organico tra montagna, collina e pianura e per lo sviluppo della
ricerca. Queste richieste erano presenti nella elaborazione delle sinistre e della
CGIL. Infatti, nell'ottobre del 1949, G. Di Vittorio a Genova proponeva il Piano
del Lavoro, nel quale era ben presente questa tematica. Insomma, la Legge Stralcio del 1950
e la istituzione della Cassa del Mezzogiorno furono la risposta moderata alle lotte
per la terra. In seguito, 5 milioni di lavoratori meridionali si sparsero per l'Europa,
attivando uno scambio, non solo nella sfera economica, ma anche e forse soprattutto
in quella dei valori, dell'elaborazione dello sradicamento. La Cassa pose le premesse,
da un lato, per avviare un processo di sviluppo eterodiretto, ispirato dalle teorie
delle "aree depresse" di origine anglosassone, dall'altro, per la costruzione di un blocco
sociale e politico intorno alla spesa pubblica. Mano a mano che si esauriva il consenso
di appartenenza, il ricorso alle risorse pubbliche veniva destinato ad accrescere la produttività elettorale piuttosto che quella del sistema meridionale.
Ma i risultati delle lotte furono del tutto negativi. Possono essere ritenute delle
sconfitte. Furono inutili?
Qualcuno lo ha sostenuto. Certo, furono anche sconfitte ed integrate.
Il capitalismo ed il mercato, come è stato notato, si erano già insediati in questa
parte del mondo. Quelli, soprattutto i comunisti, che promossero, organizzarono e
guidarono le lotte agrarie non ne erano consapevoli? Certo che lo erano. Ma in quelle
lotte, in quella temperie si sperimentarono le linee strategiche della lotta per una trasformazione
democratica e per una riforma "intellettuale e morale" (Sereni concepiva la programmazione
democratica come lotta di massa).
Certo, il movimento non si mostrò maturo per accogliere le idee che si erano venute
elaborando già da tempo nel PCI e la conseguenza fu il mancato allargamento del fronte
della lotta.
Comunque, quelle lotte non furono inutili e lasciarono tracce decisive nella politica
e nella vita nazionale. Esse portarono a livelli alti la consapevolezza delle masse
contadine, le fecero uscire dalla storia delle classi subalterne, segnata dalla secolare spirale rivolta-rassegnazione, e le fecero entrare nella storia del movimento operaio.
Quella stagione di lotte fu il terreno su cui si produssero forti soggettività politiche
e sociali - non solo il PCI e la CGIL, ma anche altre organizzazioni politiche e
di massa -, che permisero l'ingresso nella vita politica a moltitudini di donne e
di uomini che in precedenza ne erano state escluse. Questi soggetti furono per molto tempo
il luogo in cui si elaborarono ed espressero in modo elevato antiche umiliazioni,
frustrazioni, sacrosante collere e aggressività. Insomma non sono state senza significato le forme e le forze attraverso cui si è pervenuti alla rottura e al superamento,
benché incompiuto, del blocco agrario.
Questo mi sembra un punto di estremo interesse, anche perché si ricollega alle nuove
riflessioni che vengono dal Mezzogiorno, che tendono a valorizzare le risorse locali.
Le lotte per la terra, possono essere considerate momento importante per la costruzione di una identità civica.
Se consideriamo la storia, come Piero Bevilacqua, non un "cimitero di cose accadute"
ma un terreno da dissodare per rinvenire anche le potenzialità non espresse, possiamo
forse dire che la mancata riforma agraria è stata un'occasione perduta. Forse si
sarebbe potuto sperimentare un processo più autonomo di sviluppo. Invece abbiamo sperimentato
la dipendenza, attraverso varie tappe, da forme d modernizzazione e soprattutto di
industrializzazione, che proprio per essere calate dall'alto e dall'esterno, alla
metà degli anni Settanta apparivano già estenuate.
Negli anni '80, dopo il volontarismo industrialistico degli anni precedenti, si produsse
un'esasperazione dell'uso politico della spesa pubblica, ne furono occasioni varie
leggi speciali, da quelle per le aree terremotate della Campania e della Basilicata
a quelle per la Calabria, etc. Ora siamo a una nuova tappa, anzi a una vera e propria
nuova fase della modernizzazione. Il Mezzogiorno è stretto tra storia e mondo.
Dalla storia esso eredita, certo, il gregarismo, ma anche anticorpi: il senso dei
rapporti interpersonali, dei legami sociali, del rapporto con la natura. Essi dovrebbero
essere elaborati me messi a frutto politicamente contro i processi distruttivi di
beni relazionali ed emotivi, di cui la mondializzazione, non senza contraddizioni, si
alimenta. La produzione post-fordista, come è noto, ha bisogno di frammentare, di
separare: si può resistere, dare una risposta a questa indole diabolica delle nuove
forme di accumulazione?
Forse nel Mezzogiorno più che altrove esistono le potenzialità per tentare l'avvio
di una alternativa che deve innanzitutto abitare nelle menti e nelle coscienze.
Su quali forze sociali si dovrebbe fondare la reazione a questo modello di sviluppo
e dove andrebbero individuati i nuovi soggetti del cambiamento, gli elementi per
dar vita a una alleanza sociale e le nuove classi dirigenti.
Il Mezzogiorno, dobbiamo saperlo, è nel pieno di una fase in cui si concentra il massimo
di pericoli e il massimo di occasioni, come in ogni crisi. I pericoli sono quelli
di una separazione: non più un divario reso funzionale a un sistema nazionale, ma
una vera e propria frattura: il divario si fa deriva.
Tuttavia possono coesistere e convivere fenomeni di esclusione e sperimentazione di
passaggio al post-fordismo. La Basilicata ne è un esempio. Fiat, polo del salotto,
area del petrolio, trattamento di scorie nucleari (come ha denunciato Nebbia sul
Manifesto) sono i simboli di un modello di modernizzazione neo-coloniale, in cui le imprese
ricevono la delega a regolare, non solo il mercato del lavoro, ma il problema del
lavoro, l'organizzazione del territorio e perfino la funzione delle istituzioni,
ridotte a un loro servizio.
E' veramente incomprensibile la mancanza di una qualsiasi opposizione a queste tendenze,
che peraltro sono piene di contraddizioni. Non conviene, infatti, neppure alla cosiddetta
produzione snella, come più volte hanno dimostrato Reik e Rommer, ministro e consigliere di Clinton, la riduzione a "funzioni" spesso servili dei lavoratori e
delle stesse istituzioni, perché così si mortificano le capacità ideative, la creatività,
la versatilità di cui quel tipo di produzione ha bisogno, e che peraltro rappresentano una antica virtù dei contadini, a cui qualcuno ha paragonato i lavoratori del 2000.
E' superfluo aggiungere che una nuova politica per il Mezzogiorno non può avere come
settore magico quello industriale, ma deve comprendere questo in un rapporto non
gerarchico ma circolare, con altri settori e risorse che spesso meglio definiscono
la sostenibilità dello sviluppo.
Siamo davvero oltre che ad un dopo-guerra fredda, anche a un dopo-guerra di classe?
Torna la storia delle classi subalterne con i suoi silenzi e le sue rabbie? Potrà
sorgere una nuova stagione di soggettività culturali, politiche e sociali autonome,
che finalmente stiano nei processi di modernizzazione animate da un punto di vista, da un
senso della vita e dei rapporti col mondo e con la natura segnati dalla feconda
"parzialità" meridionale e mediterranea?