Vorrei sottolineare, preliminarmente, come l'arcaismo documentato nelle immagini abbia una sua fisionomia contemporanea: in altre epoche della storia del Mezzogiorno abbiamo avuto condizioni diverse e, soprattutto, un diverso atteggiamento al suo cospetto. Sino ad alcuni decenni fa, ad esempio, l'arcaismo era realta' residuale della vicenda nazionale,
ed era vissuto con la coscienza di qualcosa da tollerare e rapidamente
sradicare. Cio' non soltanto tra i gruppi egemoni o le forze di governo,
ma soprattutto tra le intelligenze critiche e quelle riformiste. Il piu'
grande etnologo italiano che abbia studiato il Mezzogiorno e la sua cultura
popolare, Ernesto de Martino, parlava di "relitti folklorici", di una realta'
ormai in via di estinzione e che era giusto, comunque, si estinguesse,
per lasciar posto a forme moderne di vita e cultura. Oggi forme arcaiche
e moderne convivono indisturbate. La persistenza di un' estesa dimensione
arcaica - come, del resto, la diffusione di neo-arcaismi - appare tratto
distintivo della societa' post-moderna. Forse perche' si e' compreso che la
presenza di dislivelli interni nelle societˆ complesse non ostacola la
diffusione delle merci e non rallenta il mercato (semmai lo volge in determinate
direzioni: piu' automobili o televisori, a esempio, e meno libri o spese
per la formazione intellettuale o professionale); forse perche'â piu'
radicalmente, si e' persa quell'idea olistica della comunita' nazionale,
di cui lo Stato si faceva garante, di derivazione illuministica, che ha
nutrito la condizione moderna e le pratiche modernistiche della vita sociale.
Oggi tutto convive, anche se in forma conflittuale e anomica. Cosi' le sacche
di arcaismo, quelle del Mezzogiorno contadino ad esempio, sono lasciate
a una loro solitaria irrelatezza, senza alcuna tensione trasformatrice,
senza alcuna ipotesi di "evangelizzazione".
Se questa e' la situazione, occorre
andare molto cauti. Certamente avere a disposizione, non in una mera dimensione
archeologica, ma in una sociologicamente significativa, un vasto repertorio
di forme culturali legato a una specifica civilta' del passato, quella agro-pastorale
e rurale; poter vedere, osservare, comparare; andare a scuola da antenati
di cui si e' contemporanei, sarebbero fattori di indubbio arricchimento.
Ove si avessero, pero', occhi per vedere e orecchie per ascoltare; ove non
si ignorasse del tutto la dimensione arcaica, come oggi accade; ove si
possedessero strumenti per decodificarne i messaggi e trasferirli sul piano
della vita sociale contemporanea.
Quanto al problema del custodire
o del modificare, credo che vada posto nel senso di assecondare processi
reali di socializzazione a partire anche dalle forme culturali in questione.
Non hanno senso, in altre parole, le riserve indiane cosi' come le no
men lands. Ha senso interrogarsi sulle funzioni sociali dell'arcaismo,
nelle concrete modalita' in cui esso si manifesta, e duttilmente assecondare
l'inserimento di forme arcaiche entro un'ipotesi riformista che possegga
fantasia progettuale e un ethos politico elevato. Vi e' un paese della Calabria,
che da qualche tempo sto studiando, per fare un concreto esempio, che su
un arcaicissimo rito di flagellazione quaresimale, ha saputo costruire
forme sofisticate di vita sociale, in grado di significare la permanenza
della gente in un dato spazio e in un dato tempo e di garantire un'identita'
comunitaria; vi e' un paese della Sicilia, all'opposto, in cui determinate
tradizioni, tenute in vita e gonfiate con il contributo finanziario pubblico,
sono vendute al turista, nel piu' totale degrado della vita comunitaria,
a beneficio di gruppi e di interessi esterni. E' questo che fa la differenza,
a mio avviso. Cio' che occorre perseguire, in definitiva, e' la pienezza
della vita sociale e le soluzioni tecniche in grado di trasformare tale
pienezza in realtˆ economica. Non mi sembra possibile alcun benessere economico
se non nel quadro di una ricomposizione della vita sociale. Il che, naturalmente,
non vuol suggerire alcuna idea idillica di questa. Il conflitto ne e' al
centro; ma il conflitto deve essere generato, pensato, risolto, tra forze
omogenee, anche se diverse, e all'interno di un campo di tensioni omologo,
altrimenti origina la disgregazione cui, negli ultimi decenni, abbiamo
assistito.