Per un governo diverso della Calabria
Sintesi della proposta programmatica per le regionali 2005
Le proposte qui sintetizzate sono
state estrapolate dal contesto argomentativo all’interno del
quale sono state formulate.
Per un’adeguata valutazione delle stesse si rinvia al Dossier “Per un governo diverso della Calabria”, comparso sul N. 4, 2003 e sul
N. 1, 2004 di
“Ora Locale”.*
Quale idea di sviluppo?
Sviluppo della montagna e riequilibrio del territorio.
Un’ipotesi progettuale per la lotta alla mafia.
Reddito di cittadinanza.
Politiche regionali per l’agricoltura.
Politica sociale dell’ambiente.
Sistema universitario e ricerca scientifica.
Sanità.
Turismo.
Valorizzazione delle risorse idriche.
Energie rinnovabili.
Se si osserva la realtà del sud e in particolare della Calabria secondo l’ottica della globalizzazione e
dei problemi che essa pone, le contraddizioni, le storture, i mali della nostra regione balzano in
evidenza. E ancora più visibili risultano i loro effetti devastanti. Tuttavia, se si assume un punto di
vista globale ci si accorge che in Calabria esistono delle potenzialità nascoste che sfuggono allo
sguardo frettoloso della politica di tutti i giorni.
Risulta evidente che sul piano economico la nostra regione è la Cenerentola dell’occidente (nel
senso che è tra le regioni a reddito più basso in un territorio in cui si vive nell’opulenza e nello
spreco), che essa è afflitta da problemi quali la mafia, il clientelismo, le inefficienze istituzionali e
così via. Ma risulta con altrettanto evidenza che essa dispone di una notevolissima quantità di beni
naturali e di risorse umane. Beni naturali: un patrimonio boschivo che è il più rilevante del
mediterraneo; un ingente patrimonio idrico dovuto alla configurazione territoriale; un invidiabile
patrimonio costiero e marino; le condizioni climatiche e ambientali ideali per un’agricoltura di
qualità; le numerose aree archeologiche e paesaggistiche che consentono lo sviluppo di un turismo
qualificato. Risorse umane: la permanenza delle culture del dono, dell’ospitalità e dell’accoglienza,
della tolleranza e della solidarietà anche verso comunità e popoli stranieri; i valori dell’amicizia,
dell’amor loci, dell’ordine simbolico della madre; la presenza di intelligenze e competenze che
produce il noto fenomeno della “migrazione dei cervelli”.
Ecco, allora, quale deve essere l’idea guida dello sviluppo in Calabria: la valorizzazione delle
risorse ambientali e umane della nostra terra. Non si può accettare la politica del laissez-faire, del
tutto va bene, del “costruite quel che volete, ma costruite”. Questa politica ha prodotto troppi danni
e dilapidato ingenti risorse. Questa politica porterà –se non riusciamo a fermarla- ad una distruzione
del nostro patrimonio complessivo. L’obbiettivo di fondo che si deve perseguire è –conviene
ripeterlo - la tutela e la valorizzazione razionale del patrimonio territoriale e delle risorse
disponibili.
E’ proprio dalle “macerie dello sviluppo” che dobbiamo ripartire, immaginando un programma di
ricostruzione, come si fa dopo un terremoto catastrofico. Proviamo a farlo, anche in base alle
esperienze maturate nella conduzione del Parco Nazionale dell’Aspromonte, indicando
sinteticamente i punti nodali, che vanno affrontati, i metodi di intervento, i principi che ispirano
questa strategia di ricostruzione:
La salvaguardia dei beni comuni. Dall’acqua alle foreste, dalle tradizioni popolari alle strade, dai
paesaggi agrari ai sistemi costieri, bisogna realizzare i piani di recupero e salvaguardia di questi
beni collettivi. L’abbandono, da una parte, ed i processi di privatizzazione, dall’altra, stanno
intaccando seriamente il nostro patrimonio collettivo che è fatto di risorse naturali, di cultura
popolare, di saperi tradizionali, di paesaggi naturali. Un patrimonio inestimabile per la collettività
che ne determina la qualità della vita e l’identità. Per essere efficace e credibile un piano di
salvaguardia e ricostruzione di questi beni comuni deve fare i conti con la macchina amministrativa
reale e con l’aggressività dei processi di privatizzazione in atto. Dobbiamo immaginare un rapporto
con i nostri beni collettivi come quello che si era storicamente determinato con gli “usi civici”, un
istituto prezioso che ha preservato ambienti ed economie locali per secoli. Ovviamente, essendo
entrati nel terzo millennio dobbiamo fare i conti con i processi di modernizzazione, con le
distorsioni che Stato e Mercato hanno prodotto rispetto all’uso dei beni della collettività. Per questo
è importante che vadano coinvolti e valorizzati quei soggetti sociali che da anni si muovono in
questa direzione.
La responsabilità sociale. Nell’esperienza del Parco Nazionale dell’Aspromonte si è potuto
sperimentare un rapporto innovativo tra la sfera pubblica ed il mondo del no-profit che ha dato
risultati insperati. Alla base di questo rapporto c’è quello che abbiamo chiamato i contratti di
“responsabilità sociale” che affidano, sulla base di una libera scelta, una parte del territorio ad
associazioni/cooperative ecc. per raggiungere determinati obbiettivi, e che prevedono una parte del
rimborso spese in base ai risultati raggiunti. Così in quattro anni si è riusciti a debellare la piaga
degli incendi con una riduzione del 90% della superficie boscata incendiata rispetto agli anni ’90.
Un modello che è diventato un punto di riferimento per diversi enti locali in Italia (prov. di La
Spezia, Protezione civile della Regione Lazio, Regione Piemonte, ecc.), che ha aperto un dibattito
in tutto il paese, ma naturalmente viene ignorato dall’attuale giunta regionale calabrese. Così, con lo
stesso criterio, è stato affrontato il fardello della raccolta di rifiuti nelle aree pic-nic, nei sentieri, nei
boschi più frequentati. Pensiamo che lo stesso modello della “responsabilità sociale”, che individua
chiaramente chi è responsabile e di che cosa e per quanto tempo, possa essere utilmente esteso ad
altri settori, a partire da quello che si ritiene sia un diritto inalienabile: il reddito minimo garantito.
Se questo diritto viene garantito associandolo alla responsabilità sociale su base comunitaria (che
sia un quartiere, un borgo, un piccolo paese, ecc.) si evitano abusi e speculazioni, ma soprattutto si
responsabilizzano le comunità locali che individuano le aree del disagio sociale e si impegnano a
contribuire –sia pure in minima parte- al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini economicamente
in difficoltà.
Per il riequilibrio territoriale. Il problema dello spopolamento della gran parte delle aree interne
delle Calabrie è diventato una questione vitale per questa regione. Nella Calabria Ulteriore sono
ormai una decina i paesi scomparsi e diverse decine quelli che rischiano di fare la stessa fine. Un
patrimonio storico, culturale, identitario sta andando al macero. Nella pur circoscritta esperienza del
parco Nazionale dell’Aspromonte si è posto al centro dell’attività questa questione nella
convinzione che gli equilibri naturali e gli ecosistemi non si salvano senza la presenza delle donne e
degli uomini che vivono ed amano un determinato territorio. In questa direzione si è sperimentata
una strategia di implementazione di attività ad alto valore aggiunto e basso impatto ambientale che
si è fondata sulla localizzazione di corsi e master di alta formazione nelle aree interne dei paesi
dell’Aspromonte.
Più difficile, ma non impossibile, è il recupero e la rivitalizzazione dei paesi scomparsi o in via
d’estinzione. In questo campo occorre avviare una strategia che tende a offrire, in comodato d’uso
gratuito, case e terreni abbandonati, puntando soprattutto al “bisogno di sud” che esiste nel centro-
nord del nostro paese.
L’efficienza della democrazia e il problema dei servizi.
Chi può oggi negare che in una società come la nostra, nella quale i bisogni elementari delle
persone sono generalmente soddisfatti, è dai servizi che dipende il benessere quotidiano? Alla loro
qualità ed efficienza è affidato sempre più strettamente il modo in cui si vive nelle città e all’interno
dei diversi territori. Ora, molti di questi servizi - che talora generano una condizione di reale disagio
e di vera e propria oppressione - possono essere trasformati, resi cioè effettivamente strumenti al
servizio dei cittadini senza investimenti finanziari significativi. O quanto meno con investimenti
minimi che sono alla portata delle casse dei nostri comuni.
In simili casi, peraltro, l’intervento tecnico si può combinare con il miglioramento della democrazia
e della comunicazione fra cittadini e istituzioni. Si pensi alle mille disfunzioni che nella condizione
di utenti la generalità delle persone deve affrontare quotidianamente: negli ospedali, agli uffici
postali, nei tribunali, nei vari uffici della Pubblica Amministrazione, nelle banche, ecc. Ebbene,
perché una legge regionale non dovrebbe offrire agli utenti una “posta dei reclami” dove i cittadini
possono esprimere le proprie critiche e i propri suggerimenti? Naturalmente una tale iniziativa
dovrebbe essere accompagnata dall’obbligo della creazione di una figura responsabile che vagli le
proposte dei cittadini e si impegni a farle realizzare agli organi dirigenti.
Ma tali considerazioni se valgono per gli uffici e per i servizi, valgono in maniera più rilevante per
gli organi di governo locale. Qual è oggi la qualità delle relazioni tra cittadini e amministrazione
comunale? Quale grado di trasparenza, forme di comunicazione, livello di partecipazione connota il
contenuto sostanziale della democrazia nei nostri comuni? Ora non c’è dubbio che negli anni recenti
la qualità della democrazia cittadina si sia molto impoverita, a causa della scomparsa dei partiti di
massa. Occorrerebbe dunque innovare molto su tale terreno. L’amministrazione comunale dovrebbe
sistematicamente informare, invitare i cittadini allorché in Consiglio vanno in discussione i temi
rilevanti per la vita della collettività. Resoconti dovrebbero essere resi pubblici in luoghi appositi
della città oltre ad essere inseriti in rete. La comunicazione tra istituzione e cittadini dovrebbe essere
attivata direttamente dal potere anziché attendere l’impegno soggettivo dei singoli, il quale spesso
non si attiva per ragioni storiche che sarebbe lungo spiegare. Ma la squadra di governo municipale
dovrebbe sentirsi impegnata a incontrare almeno una volta l’anno i cittadini, tramite le loro
rappresentanze, per dar conto agli elettori dello stato di realizzazione del programma presentato in
campagna elettorale. Un fatto del genere costituirebbe una straordinaria pratica di educazione alla
democrazia, ma anche una forma di partecipazione dei singoli alla vita della città sentita davvero
come bene collettivo. Oltre a costituire di per sé un elemento di benessere sociale per i cittadini:
uscire dall’anomia solitaria della vita privata e sentirsi impegnato a favore del bene comune fonda
quel senso particolare di felicità pubblica che ben conoscono le persone impegnate nell’attività
politica militante e nel volontariato.
Infine una più specifica indicazione per la squadra che si candida al governo della Regione.
Anch’essa dovrebbe sottolineare nel proprio programma l’impegno alla trasparenza, alla
comunicazione diretta coi cittadini, al controllo e alla vigilanza democratica. Perché allora non
assumere l’impegno, di fronte agli elettori, di voler convocare almeno una volta l’anno, gli Stati
Generali della Regione? Si tratterebbe cioè di istituire una adunanza di rappresentati delle
provincie, dei maggiori comuni e di delegazioni significative delle forze sociali e dei cittadini, nella
quale la collettività calabrese si interroga sulle sue condizioni, sui problemi da affrontare, sulle
iniziative in atto, sulle prospettive a medio e lungo termine. La Regione Calabria deve cessare di
essere percepita dai calabresi come un luogo distante e inaccessibile, sede di opache burocrazie e di
oscuri maneggi di gruppi e fazioni. Essa sempre di più deve apparire come il cantiere aperto dove si
lavora a costruire un edificio cui tutti, in diversa misura, si sentono di dovere collaborare. Chi si
candiderà alla guida della Regione potrebbe avere, già in questo impegno assunto con gli elettori,
una carta in più per presentarsi come gruppo portatore di uno stile di comportamento
significativamente nuovo rispetto al recente passato.
Per contrastare e combattere la criminalità organizzata in Calabria si rendono immediatamente
necessari:
1) L’istituzione di un osservatorio regionale (con rappresentanti della Regione, delle assemblee
elettive locali, delle forze dell’ordine, delle associazioni antiracket) con compiti di verifica del
rispetto dei diritti normativi, previdenziali, assistenziali e salariali su tutti i posti di lavoro (dai
grandi centri commerciali, alle attività edilizie ed agricole etc.); con compiti di verifica e
proposta di scioglimento di cooperative ed associazioni di produttori dirette o infiltrate dalla
mafia; con compiti di verifica e di proposta di sanzioni politiche agli enti responsabili di inerzia
ed inadempienze nell’utilizzo dei beni confiscati alla mafia.
2) L’adeguato incremento di risorse economiche (in aggiunta a quelle nazionali ed europee)
nell’apposito capitolo di bilancio per sostenere concretamente i progetti finalizzati alla
utilizzazione dei beni confiscati alla mafia; per iniziative di recupero dei giovani a rischio di
devianza; per il risanamento dei quartieri degradati.
3) La costituzione di un ufficio legale regionale per coordinare e sostenere gli enti locali che si
costituiscono parte civile nei processi penali contro le cosche mafiose e nei successivi
procedimenti civili promossi per ottenere il risanamento economico degli immensi danni
morali e materiali inferti dalla mafia alle nostre popolazioni.
Completata la elaborazione, l’ipotesi progettuale dovrà essere proposta alla discussione ed
all’esame di tutti i consigli comunali della Calabria (in sedute aperte al contributo del pubblico) e
dei consigli provinciali. Il consiglio regionale concluderà l’esame, approverà il progetto e lo
trasmetterà alla Commissione Parlamentare Antimafia affinché le massime assemblee elettive
nazionali ed europee, con i loro governi possano sostenerlo politicamente e economicamente, con
le leggi e le risorse necessarie.
Poiché indiscutibilmente, almeno negli ultimi due secoli, il lavoro ha rappresentato, nella nostra
società, il principale regolatore dei rapporti sociali, la principale fonte di identità, l’elemento
politicamente aggregabile e rappresentabile, il fatto che un numero crescente di individui ne
rimanga escluso, o coinvolto solo marginalmente, finisce col mettere in questione l’appartenenza
stessa alla comunità politica e la fruizione dei diritti sociali che la società fordista aveva saldamente
collegato alla condizione del lavoro salariato stabile e a tempo pieno.
Dentro questo ambito, il problema del lavoro e della sua rarefazione, si pone prevalentemente
come un problema di coesione sociale, di appartenenza e di senso, un problema della cittadinanza,
appunto.
Il Reddito di cittadinanza con i suoi caratteri universalistici e incondizionati, parla dunque di una
restaurazione dell’appartenenza, di una riproposizione dei legami sociali aldilà delle condizioni
lavorative, assumendo così, per intero, l’enormità e la radicalità del problema.
Il reddito di cittadinanza realizza il suo obbiettivo attraverso svariate ipotesi di politica
redistribuitiva e di ingegneria fiscale senza voler dunque cancellare la cogenza dei processi
produttivi.
Questo servirà, nell’immediato, ad alleviare l’indigenza e la miseria, ma l’essenziale sta nel trovare
un accordo sulle motivazioni profonde del sostegno finanziario concesso e trovare una giusta
corrispondenza tra fatto e diritto.
Per stabilire l’entità del sostegno finanziario da corrispondere ai disoccupati, si propone l’adozione
della recente delibera dell’Ente Regione Campania sul reddito minimo garantito.
Si ribadisce che il reddito minimo garantito deve essere considerato un diritto inalienabile e che
deve necessariamente essere collegato alla responsabilità sociale su base comunitaria (che sia un
quartiere, un borgo, un piccolo paese ecc.).
La definizione delle politiche per l’agricoltura deve seguire un percorso in tre fasi: è necessario
prima definire alcune”regole”generali cui le politiche devono sottostare, poi passare ad
identificare le “scelte strategiche” che definiscono gli obbiettivi generali che si vogliono
perseguire e, solo a questo punto, passare ad individuare le “azioni” specifiche concrete.
Per quanto concerne la definizione delle “regole” e delle “scelte strategiche” si rinvia all’articolo
sui problemi dell’agricoltura comparso sul n. 4, 2003, di “Ora Locale”. Qui ci soffermiamo
soltanto sulle “azioni” - almeno cinque - in cui dovrebbero concretizzarsi le politiche regionali per
l’agricoltura.
L’apparato amministrativo regionale legato alle politiche per l’agricoltura e lo sviluppo rurale
appare oggi assolutamente inadeguato a svolgere i compiti che gli sono affidati. Nelle condizioni in
cui versa oggi l’amministrazione regionale delle politiche agricole e per lo sviluppo rurale non è
possibile pensare di potere progettare e realizzare politiche in maniera efficace. Ciò costituisce uno
svantaggio competitivo rilevante per il sistema delle imprese agricole ed agro-alimentari regionali
rispetto a quelle situate in contesti in cui l’amministrazione pubblica funziona. Ma i problemi della
macchina amministrativa regionale non sono solo di efficienza: il suo malfunzionamento ha reso
possibile e fatto consolidare nel tempo un rapporto tra amministrazione regionale e beneficiari
delle politiche che ha reso via via più vago il significato di termini quali “diritto”, “dovere”,
“norma”. E’ per questi motivi che è necessario un’azione di “rigenerazione” della macchina
amministrativa regionale in agricoltura, in modo da metterla in condizione, in un arco di tempo
ragionevole, non solo di implementare politiche in maniera efficiente, ma anche di svolgere con
efficacia il ruolo, che sempre più le è attribuito, di progettare politiche adeguate alle specifiche
domande regionali e sub-regionali, senza demandare a competenze esterne ruoli strategici che le
sono propri. Si tratta di realizzare uno studio organizzativo sull’assetto attuale e quello auspicato
dell’amministrazione regionale in agricoltura e procedere poi speditamente ad una sua
riorganizzazione funzionale, che la restituisca istituzionalmente rinnovata e adeguatamente
rinforzata in competenze e mezzi.
Occorre rilevare che l’attuale distribuzione delle aziende a seconda delle loro dimensioni fisiche è
tale da tagliare fuori la stragrande maggioranza delle aziende da qualsiasi ipotesi di trasformazione
aziendale in grado di garantire costi di produzione compatibili con i prezzi di mercato, associati al
miglioramento tanto delle qualità delle produzioni che della capacità delle imprese di
commercializzarle adeguatamente. Una seconda area di azione prioritaria delle politiche regionali è
quindi quella relativa ad un deciso intervento sui meccanismi che regolano il mercato fondiario con
l’introduzione di strumenti finanziari innovativi ed efficaci, tali da consentire una forte crescita del
numero delle imprese agricole calabresi in grado di garantire piena occupazione ed un reddito
adeguato ad almeno un membro della famiglia.
La terza area di azione è quella a sostegno del miglioramento della qualità dei prodotti, intesa come
la capacità delle imprese di soddisfare a costi adeguati la domanda espressa da un segmento
specifico di acquirenti interessati ad una particolare caratterizzazione qualitativa, appunto, del
prodotto. Si tratta, a seconda delle diverse realtà aziendali e delle diverse strategie delle imprese, di
aiutare queste, o loro aggregazioni, a produrre prodotti più vicini allo specifico target di qualità
prescelto e a farlo a costi contenuti: a produrre meglio, ad esempio, prodotti fortemente
differenziati sulla base della tipicità tradizionale legata al territorio, destinati a segmenti di mercato
di nicchia; prodotti della agricoltura biologica; prodotti a denominazione di origine e a indicazione
geografica protetta; tutto ciò assieme, naturalmente, a prodotti, meno differenziati, ma in grado di
soddisfare gli standard minimi di qualità, sempre più stringenti, imposti alle imprese produttrici
dalla grande distribuzione organizzata in termini, non solo del prodotto in sé, ma anche dei servizi
da fornire assieme a questi. In questo ambito più che negli altri va percorsa con decisione la strada
di progettare e realizzare esclusivamente interventi di natura integrata, che intervengano sui punti
critici lungo l’intera filiera del prodotto nell’ambito di un unico disegno.
La quarta azione è quella a sostegno della produzione e dell’adozione di innovazioni.
L’innovazione è la variabile competitiva strategica delle imprese agricole ed agro-industriali; lo
sanno bene le imprese leader regionali, che hanno costruito nel tempo, e difendono oggi, la loro
capacità competitiva proprio puntando sull’innovazione. L’innovazione deve interessare tutti i nodi
delle filiere dei prodotti: dalla produzione in azienda alle fasi di concentrazione, manipolazione e
confezionamento, alla vendita diretta, alla distribuzione commerciale, alle fasi della trasformazione
industriale, al marketing, alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda le azioni specifiche
necessarie alla diffusione di innovazione tecnologica nelle aziende agricole, che costituisce l’anello
della filiera più difficile da aggredire in una strategia di diffusione di innovazione, è necessario
ridisegnare l’insieme delle attività legate alla ricerca, alla sperimentazione ed al trasferimento delle
innovazioni alle imprese, “mettendo a sistema” e, ove possibile, integrando funzionalmente, queste
tre aree di attività, coinvolgendo di più le imprese nella definizione delle priorità e nella
realizzazione delle attività di sperimentazione e divulgazione, e innovando l’assetto istituzionale ed
organizzativo delle attività di divulgazione. In questo contesto non appare più eludibile la messa in
liquidazione dell’ARSSA, con il trasferimento di strutture, competenze e personale di questa, a
seconda dei casi, ad agenzie più snelle, alla Regione, ad enti pubblici o ad imprese e consorzi di
imprese interessate a rilevare alcune delle sue attività.
La quinta azione è quella a sostegno di una molto più efficace valorizzazione commerciale delle
produzioni agro-alimentari regionali. Si tratta in questo caso di incentivare una molto maggiore
concentrazione della offerta, centrata su iniziative cooperative o associative; di incentivare le reti di
cooperazione tra le imprese volte alla riduzione dei costi o all’aumento dell’efficacia delle azioni
realizzate; di perseguire un’espansione ed un ispessimento delle attività di trasformazione
industriale delle produzioni agricole, in grado di aumentare significativamente la valorizzazione
all’interno delle regione delle sue produzioni agricole; di sostenere la creazione, la gestione e
l’efficace valorizzazione commerciale di marchi collettivi di qualità; di incentivare strategie di
promozione commerciale innovative, sia collettive che da parte di imprese e di aggregazioni di
imprese.
Il lavoro da fare è molto e le difficoltà da superare rilevanti. La concretizzazione del disegno
comporta un rovesciamento radicale dei rapporti consolidatisi nel tempo fra beneficiari delle
politiche, amministratori e macchina amministrativa regionale, restituendo a ciascuno il ruolo e le
responsabilità che gli spettano. All’amministrazione regionale la responsabilità di svolgere il suo
ruolo in maniera efficace e di garantire il diritto di ciascuna impresa ad un trattamento equo; ai
decisori politici quello di progettare e governare il necessario cambiamento, dimostrandosi capaci
di compiere scelte; alle imprese quello di tornare a perseguire con decisione strategie
imprenditoriali, accettando il ruolo delle politiche come strumento di governo delle dinamiche del
settore (e non di mero strumento di trasferimento di risorse cui non corrisponde alcuna
contropartita). Non si tratta di sfide di poco conto, su nessuno dei tre fronti.
Il ruolo di comuni, province e regioni dopo la riforma costituzionale.
Non è opportuno ritenere che si possa e si debba dare per scontata la conoscenza della nuova
architettura costituzionale disegnata dal legislatore di riforma, relativa non solo ai rami alti
dell’ordinamento (rapporto Stato-regioni) ma anche a quelli (per così dire) bassi (rapporti fra
regioni ed altri enti autonomi della Repubblica), fra cui soprattutto comuni e province, in ragione
del ruolo centrale occupato dagli stessi nell’attuazione del principio di sussidiarietà verticale. Così,
nella Regione Calabria (al pari di quanto dovrà avvenire nel resto del paese), potremo conoscere
una nuova stagione istituzionale solo e nella misura in cui il Consiglio regionale (per quanto di sua
competenza nel procedimento legislativo e con particolare riferimento alle nuove competenze
statutarie del Consiglio delle autonomie locali, di cui al Tit. VI dello Statuto) e l’esecutivo
regionale si impegneranno a dare attuazione alle formule statutarie della “partecipazione degli enti
locali all’attività legislativa e amministrativa regionale”, della promozione della cooperazione con
gli stessi in funzione degli obiettivi della programmazione, della valorizzazione e della promozione
dell’esercizio associato delle funzioni fra enti locali, nonché della valorizzazione delle associazioni
di rappresentanza degli stessi.
Questi ultimi costituiscono appunto principi ispiratori del nuovo Statuto regionale in materia di
rapporti regioni/enti locali, che potranno tradursi in comportamenti istituzionali coerenti solo e
nella misura in cui gli stessi diverranno patrimonio condiviso di tutte le forze politiche regionali.
Anche in Calabria è necessario porre mano ad un progetto di riordino delle competenze del sistema
regionale/enti locali; e, nel farlo, la Regione deve previamente convenire con gli enti locali sui
contenuti materiali della allocazione dei poteri amministrativi a valle dell’Ente Regione.
In tale riallocazione territoriale dei poteri amministrativi (“conferimento” di funzioni
amministrative) – che non significa più, come nel previdente ordinamento costituzionale, mera
delega delle stesse – la Regione dovrà perseguire l’obiettivo istituzionale/costituzionale di
ritagliarsi quelle sole competenze che si ritiene necessarie al fine di assicurare l’unitarietà di
esercizio delle stesse (dunque, diremmo, le sole competenze di programmazione, indirizzo ed alta
vigilanza). Nel farlo, tuttavia, la Regione, non potrà trascurare che, a fronte dell’esercizio di questo
potere, cui è chiamata dalla riforma costituzionale, essa deve partire dal rispetto della previsione
costituzionale che riconosce il comune come l’ente sussidiario primario, in quanto più prossimo al
cittadino. Pertanto, le altre funzioni che la Regione conferirà ad enti come la Provincia e le città
metropolitane, ma anche alle comunità montane ed alle unioni dei comuni, dovranno rispettare i
principi costituzionali che vincolano la Regione in tale funzione riallocativa di poteri, che sono
appunto i principi della sussidiarietà, della differenziazione e dell’adeguatezza degli enti destinatari
del conferimento. La Regione non dovrà parimenti trascurare nell’allocazione dei poteri gli altri
enti di autonomia funzionale; ciò anche al fine di dare vita ad un sistema territoriale adeguato allo
svolgimento delle funzioni dello sviluppo economico e della gestione dei servizi. A tale finalità, la
Regione è chiamata anche in ossequio all’art. 7 della l. 131 del 2003, di attuazione della revisione
del Tit. V Cost.
L’esito complessivo di tale riordino dei poteri territoriali, dunque, è quello di una revisione
generale della mappa dei poteri locali rispetto al previdente regionalismo praticato nel Paese e nella
nostra Regione, finalizzata ad una nuova idea di regione di tipo ‘leggero’, impegnata nella
legislazione ed ormai ‘alleggerita’ dagli oneri amministrativi (tranne quelli che per esigenze di
garanzia di unitarietà di esercizio saranno considerate di spettanza regionale).
Il perseguimento di tale obiettivo, tuttavia, dovrà avvenire in un contesto istituzionale che impone
una nuova cultura politica, che è quella dell’accordo con il sistema autonomistico, un accordo che,
peraltro, è formalmente previsto nella legge di attuazione del riformato Tit. V Cost., da realizzarsi
in sede di Conferenza Unificata, relativamente alla definizione delle politiche di trasferimento delle
occorrenti risorse ( umane, materiali e finanziarie).
Uno scenario complessivo di interpretazione del quadro regionale ci è stato offerto da studi recenti
(ITATEN, RETURB, ecc.). Queste elaborazioni restituiscono un disegno del territorio calabrese,
oltre che degradato, frammentato; separato in ambiti quasi non comunicanti. Il dissesto ecosociale
ha dunque cancellato le antiche forti relazioni tra ambienti sub-regionali. Oggi lo scenario
calabrese presenta una figura polarizzata sostanzialmente attorno a due grandi formazioni perlatro
segnate da rotture e discontinuità al loro interno. Da una parte sta l’enorme spazio interno,
montano e collinare, un ambiente tanto importante dal punto di vista paesaggistico quanto fragile
dal punto di vista socioeconomico, dopo il declino dell’economia agraria. In queste parti della
regione la grande istanza per il prossimo futuro è legata alla capacità di reintroduzione di
economie autosostenibili. L’altra parte del quadro è costituita da costa e pianura urbanizzata: su
una superficie pari a poco più del 15% dell’intera area regionale si concentrano più del 60% degli
insediamenti e più dell’80% degli investimenti. Tale situazione dà luogo a nove città allargate
“diffuse” o “estese” (il Reggino, la Piana di Gioia Tauro, la Locride, il promontorio del Poro,
Lametia-Catanzaro, il Crotonese, l’Alto Tirreno, il Cosentino, il basso Crati) che presentano
armature urbane ormai moderne e consolidate, in grado di rapportarsi e competere con molte realtà
urbane italiane e continentali. In queste aree I problemi sono legati alla presenza di degrado
ecosociale da congestione urbanistica e talora perdurante precarietà dell’organizzazione
economica. E’ dunque evidente la domanda di riterritorializzazione. Al di là delle problematiche
interne alle situazioni territoriali indicate, la grande scommessa della politica ambientale calabrese
può essere quella della ricostituzione di un tessuto denso e vivace di relazioni tra il grande
patrimonio paesaggistico, non solo interno, e le strutture sociali urbanizzate spesso carenti proprio
di qualità ecologica.
Seguendo la tradizionale partizione ecologica, un programma di politica ambientale potrebbe avere
la seguente articolazione:
La montagna. Non possiamo semplicemente limitarci a proteggere l’ambiente naturale. Sulla
nostra montagna, così bella e così selvaggia, si può veramente sperimentare un nuovo modello di
sviluppo mediante una razionale economia forestale, la vivaistica, un piano faunistico, la
progettazione di oculate attività di produzione rinnovabile di essenze pregiate, in grado di
alimentare l’artigianato e l’industria del legno.
La collina. La Calabria è sede di una incredibile biodiversità che rischia di perdersi. I vecchi danni
del latifondo si sommano a quelli più recenti dell’abbandono o delle monoculture industriali che
durano qualche stagione lasciando il deserto. Ma i danni possono essere riparati. Può essere
recuperato il valore economico di tanti alberi che un tempo popolavano le colline: il gelso, il sorbo,
il corbezzolo, il giuggiolo, il fico…ora quasi rari. Alberi che segnavano il paesaggio, le economie
locali e la vita delle genti, la vitalità delle poche aree di piccola proprietà contadina condotta con lo
stile del “buon padre di famiglia”. La macchia mediterranea oggi spesso brucia. Ciò che si perde è
un enorme laboratorio scientifico ed economico. Solo la follia e la vendetta del fuoco o la
disperazione dell’abbandono possono disperdere questa ricchezza. Qui, invece, ricerche e sviluppo
economico, nel campo della farmacia, della cosmesi, dell’economia verde, ecc., possono coniugarsi
ottimamente. Un discorso specifico, inoltre, meriterebbe l’olivicoltura (che investe anche la
pianura), la quale rappresenta in primo luogo un grande patrimonio ambientale e paesaggistico
totalmente trascurato e sfruttato per una produzione di bassa qualità e molto spesso in funzione di
integrazioni illegittimamente accaparrate.
La pianura. Perché continuare ad inseguire miti fallimentari di improbabili avventure industriali
in comparti per i quali non vi è alcuna vocazione o socializzazione produttiva endogena? Perché
arrischiare strade intasate dalla concorrenza? L’agroindustria, rinvigorita da produzioni di qualità, è
la regina di queste terre che offrono a chi le cura la frutta, gli ortaggi, l’olivo. La trasformazione
manifatturiera di questi prodotti sconta difficoltà e problemi che occorre non nascondersi, ma che
non appaiono insuperabili. I vantaggi della localizzazione geografica, una sorta di monopolio
naturale offerto dal clima (dai molteplici microclimi), dalla giaciture, dall’irraggiamento e così via
non possono essere trascurati. I pochi esempi di successo lo dimostrano. Vi sono poi saperi locali,
culture produttive, pratiche relative all’uso dei beni agricoli e di molti vegetali spontanei che
riguardano non solo i rami della trasformazione e della conservazione alimentare, ma anche la
farmacopea, la dietetica e la salutistica e sconfinano nei settori della tintura e della manifattura
artigianale. Si tratta di saperi ed abilità sommersi, che con urgenza dovrebbero essere recuperati
prima che svaniscano del tutto. Si tratta di competenze che mercati raffinati ricercano e che
dovrebbero essere valorizzate con ampi e sensati progetti, invece di relegarle – al massimo- nei
ristretti e manipolati ambiti del folklorismo consumista.
Nell’ambito di “bioitaly” sono stati individuati 212 siti calabresi di primario interesse per
caratteristiche floro-faunistiche. Fra di essi numerosi sono i biotopi d’acqua ferma fra cui le ultime
zone paludose. Va sottolineata, tuttavia, l’urgenza di mettere sotto un vincolo di tutela più efficace
le poche altre zone umide rimaste. Il vincolo di “ oasi di produzione” è debole: vieta in pratica
soltanto l’esercizio della caccia, ma non garantisce che sia rispettata l’integrità dell’ambiente
naturale: è il caso – tra gli altri- dell’oasi di protezione “foce del Neto”, dove ogni anno una fetta
della palude e del residuo bosco planiziale è distrutto per far posto alle coltivazioni.
Il mare. Spiagge pulite, acque incontaminate, serentià e pulizia acustica, un’estate che va da aprile
a novembre sono le risorse che giacciono sotto le immondizie della speculazione e della rendita,
della invasione da asfalto, cemento di pessima qualità, automobili e motorini schiamazzanti. La
vela, l’osservazione subacquea (diving libero e guidato), la talassoterapia e l’elioterapia sono
prospettive concrete e redditizie che accompagnano una proposta turistica rinnovata. Non serve, a
questo proposito, il proliferare di nuovi progetti di porti (in particolare turistici per imbarcazioni da
diporto, come l’insensato progetto nell’area di Capo Vaticano), che – oltre all’insostenibile impatto
ambientale- sarebbero del tutto antieconomici, dato il rapporto già equilibrato tra natanti in
circolazione e posti barca disponibili. Si tratta piuttosto di sistemare e rendere funzionale
l’esistente. Di istituire aree protette di ripopolamento e rigenerazione della flora e della fauna
marina.
Ma vi sono anche concrete possibilità di valorizzazione di una pesca non di rapina che miri alla
conservazione del mare, che si indirizzi in parte verso l’itticoltura e l’allevamento fino alla
mitilicoltura. In questo settore esistono tradizionali capacità e saperi importanti per la
trasformazione e la conservazione del pescato, sia artigianale sia industriale.
I paesi-presepio, le città vecchie, i beni culturali ed archeologici sono altri preziosi tesori
sommersi dalle immondizie. Non possiamo – per brevità- dilungarci su questi aspetti che
offrirebbero enormi possibilità all’ampio “capitale umano” di giovani qualificati e professionisti
nei campi dell’ingegneria, dell’architettura, dei servizi alle persone, della cultura. Possibilità di
lavoro competente e grandi possibilità di attrazione, oltre che innalzamento evidente della qualità
di vita di tutti, possono emergere da una prospettiva che consideri le risorse naturali, la loro
relazione con i beni culturali e la loro diversità come fattore di nuovo benessere. La possibilità di
iniziative nei settori dell’industria piccola e media e, soprattutto, nei relativamente nuovi settori
dell’informazione e dell’informatica avranno a nostro avviso valore se compatibili e dunque
sinergiche rispetto alle prospettive sopra indicate.
Le fiumare costituiscono l’elemento che storicamente fungeva da collante tra i differenti ambienti
regionali (montagna, collina, pianura, mare): i circa 200 corsi d’acqua calabresi formavano
autentici sottosistemi, complessi ma organici, sociali, ambientali e territoriali. Essi erano connotati
da forti dinamiche socioculturali e alti valori ecologici e espletavano funzione di cerniera tra gli
ambiti interni, le corone pericollinari e le cimose litoranee. Tale fondamentale ruolo delle fiumare è
stato affatto dimenticato e negletto nelle ultime fasi, come dimostrano i continui stravolgimenti
degli alvei negati, ricoperti, tombinati, sconvolti, cancellati; salvo i drammatici e catastrofici
risvegli registratisi nei momenti delle alluvioni. Il principale elemento di relazione del territorio
calabrese era stato ridotto a rango di peggiore nemico. Neppure il Piano di Assetto Idrogeologico,
che pure doveva avere un’attenzione mirata alla protezione dei suoli, ha saputo cogliere e
dispiegare il citato ruolo delle fiumare rispetto ad un assetto regionale adesso da riqualificare.
Per una nuova politica della ricerca e dell’istruzione universitaria abbiamo anche in Italia
esperienze concrete, che hanno già dato frutti interessanti, dalle quali trarre spunto per un
intervento di qualità nella nostra regione che punti, da un lato, a mettere a sistema le tre università,
gli enti ed i centri di ricerca pubblici e, laddove esistano, quelli privati, il sistema scolastico ed
educativo-formativo, dall’altro, a collocare attivamente la Calabria nel contesto delle regioni
meridionali.
Si ricorda in proposito che il 20 ottobre fu siglato un protocollo d’intesa tra l’allora MURST
(ministero università e ricerca scientifica e tecnologica), oggi MIUR (ministero istruzione,
università e ricerca), e le Regioni dell’obiettivo 1, per l’attuazione del Programma Operativo
Nazionale Ricerca (PON Ricerca), che, da un lato, individuava, in relazione ai bisogni di ricerca,
sviluppo tecnologico ed alta formazione dei sistemi economici e produttivi regionali, i settori
prioritari dell’intervento; dall’altro, puntava a realizzare un sistema di alta formazione e ricerca del
e nel Mezzogiorno attraverso “la realizzazione di reti tematiche, di centri di eccellenza e centri di
competenza, valorizzando le strutture che hanno maturato significative esperienze e competenze
nella ricerca e nello sviluppo tecnologico e, ove necessario, creando le opportune integrazioni e
implementazioni della rete stessa” (art. 5 del citato protocollo).
Quel protocollo, che poneva le basi per la costruzione dei sistemi regionali e di un sistema
meridionale di alta formazione e ricerca, è stato totalmente ignorato dalla nostra regione.
Dove il protocollo ha avuto la sua interessante e dinamica applicazione è stato in Campania. Ed i
risultati ottenuti in quella regione non richiedono ulteriori commenti sulla validità
dell’impostazione: “Crescita del PIL dell’1,9% (media nazionale 0,4%); 1550 nuovi occupati nel
settore hitgh tech nel biennio 2001-2002; rapporto università impresa: il 40% delle risorse del PON
MIUR ASSE 1 (ricerca e sviluppo tecnologico nell’industria assegnato ad aziende campane);
potenziamento dell’alta formazione: il 40% delle risorse PON-MIUR ASSE III (rafforzamento ed
apertura del sistema scientifico e di alta formazione) assegnato ad iniziative campane; forte
integrazione delle politiche di innovazione nazionali e regionali, attivazione della filiera
dell’innovazione.
Quel sistema indicato nel protocollo ed attuato in Campania può rappresentare la chiave per una
svolta radicale anche in Calabria.
Per operare in quest’ottica, ai diversi livelli istituzionali competenti, occorre dotarsi di un modello
di finanziamento adeguato, sviluppare ricerca di frontiera e non contingente, favorire la nascita di
imprese hit-tech, dare opportunità ai ricercatori, valorizzare il ruolo delle università e degli enti
pubblici di ricerca, favorire l’ingresso di una nuova leva di ricercatori.
Centrali, comunque, divengono i Sistemi universitari e di Ricerca che, senza smarrire neanche per
un attimo la loro missione di garantire una formazione critica e l’acquisizione di elevate
competenze ai giovani ed ai cittadini, rendano possibile la creazione e lo sviluppo di sempre nuove
e più avanzate conoscenze. Questa formazione e questa ricerca può e deve integrarsi con le
esigenze dello “sviluppo” territoriale. E la Regione in concorso con le Università, gli Enti Pubblici
di Ricerca, i sistemi produttivi e dei servizi, le organizzazioni sociali, deve garantire la traduzione
dei risultati della ricerca in prodotti e processi innovativi.
Le nostre università ed i centri di ricerca, se messi in condizione di sviluppare al massimo le
necessarie sinergie, possono essere il motore di una grande operazione di rinascita che punti ad un
diverso sviluppo e qualità della vita nella regione.
Sarebbe necessario, quindi, dar vita da subito:
-ad un Osservatorio tra sistema universitario e di ricerca e sistema agricolo, industriale, dei
servizi, per le tematiche strategiche di medio-lungo periodo;
-ad una rete per la gestione dei flussi di conoscenze tra ricerca, industria, agricoltura, servizi;
-a strumenti legislativi ed amministrativi adeguati per la gestione dei rapporti tra i soggetti sopra
chiamati;
-alla individuazione di una ipotesi di realizzazione di un sistema di distretti produttivi, agricoli e
industriali (un discorso attento sull’agricoltura investe tra l’altro direttamente tutte le questioni
delle zone interne, della tutela del territorio e dell’ambiente, del recupero produttivo della
collina e della montagna e di un suo intelligente collegamento con i nodi di scambio e l’intera
zona costiera);
-all’approntamento di strumenti finanziari dedicati;
-alla realizzazione di centri di competenza e reti di eccellenza; queste strutture costituiscono il
centro nevralgico del sistema, in quanto presuppongono:
-alla messa in rete di tutte le articolazioni del sistema universitario, di formazione e di ricerca
regionali (e non solo regionali, laddove necessario);
-all’impegno delle singole strutture universitarie e di ricerca, in base alle specifiche competenze
e specializzazioni scientifiche e disciplinari su precisi progetti, quali articolazioni di un più
generale programma regionale;
-al trasferimento al “centro di competenza” (struttura che non ha bisogno di nuove sedi ed
edifici) delle conoscenze specifiche prodotte dai singoli dipartimenti universitari, centri di
ricerca pubblici e, laddove esistono, privati, per essere trasformate in competenze e trasferite
alle singole imprese (industriali, agricole, di servizio) per innovare processi e soprattutto
prodotti delle diverse filiere.
La sanità calabrese deve essere migliorata. Ne esistono ampiamente i margini. L’entità della
migrazione extraregionale di pazienti calabresi ne esprime l’esigenza. I punti essenziali da tenere
presente sono:
Le logiche giuste. La logica che deve improntare le decisioni e le scelte é, naturalmente, quella di
rispondere alle esigenze sanitarie dei pazienti e non alle esigenze di equilibri politici, di partiti, di
correnti, di clientele. Saltare questo primo punto vuol dire vanificare ogni sforzo.
Un turnover insensato. L’incessante parossistico turnover (un vero tourbillon), a cui assistiamo, di
assessori, commissari, direttori generali, direttori sanitari, direttori amministrativi é la prima causa
di inefficienza del sistema. La continuità politico-gestionale é requisito essenziale per poter
correttamente gestire e programmare le scelte e gli interventi utili, per poterne valutare i risultati ed
eventualmente apportare le dovute correzioni.
La burocrazia sanitaria. Rinnovare, ringiovanire, portare a normalità, la struttura burocratica
dell’assessorato alla sanità é l’altro punto essenziale ed ineludibile per il miglioramento della sanità
calabrese.
Osservatorio epidemiologico. Per poter riorganizzare adeguatamente la sanità calabrese occorre una
linea fatta di scelte che partano da dati certi, numeri, trend. L’istituzione di un vero, serio, affidabile
osservatorio epidemiologico regionale deve essere considerata una priorità assoluta a cui dedicare
tutte le attenzioni e le risorse necessarie. Un’indagine a largo raggio sull’entità, sul tipo, sulle
tendenze, sulle cause e sulle motivazioni della migrazione sanitaria extraregionale dovrebbe
costituire il primo impegno.
La qualità della domanda sociale. Bisogna perseguire l’obiettivo di migliorare la qualità della
domanda sociale sanitaria, con una continua attività informativa (didattica) per far passare nella
popolazione le scelte più opportune per i malati, depurandole dalle contaminazioni dettate da
campanilismi o clientelismi.
Ospedali e medici di famiglia. Non vi é carenza assoluta di posti letto ospedalieri in Calabria,
semmai sovrabbondanza. La carenza relativa é determinata dall’uso improprio che si fa dell’accesso
agli ospedali. Una adeguata opera di coinvolgimento dei medici di famiglia attraverso un rapporto
paritario tra la medicina ospedaliera e quella territoriale é il rimedio proponibile per questa
distorsione.
Università. L’integrazione funzionale tra le strutture universitarie e quelle ospedaliere é un altro
obbiettivo essenziale che deve essere centrato pretendendo il superamento di corporativismi ed
arroccamenti.
Una regione come la nostra che rappresenta il 3,5% della popolazione italiana e appena il 2,3% del
PIL insieme a tanti record negativi riporta anche quello del turismo. Un turismo comunque
cresciuto, si potrebbe dire “nonostante” la Regione, con le APT commissariate e l’assenza di una
strategia. E che potrebbe crescere ancora di più, ancora più velocemente, scalando le graduatorie
nazionali se, messi da parte definitivamente la retorica ed i luoghi comuni sul turismo, si
cominciasse seriamente a fare politica turistica a tutti i livelli.
Secondo il Touring Club Italiano il potenziale inespresso del Mezzogiorno in campo turistico è
enorme. Pur essendovi risorse turistiche enormi esse non sono rese “prodotto turistico” né
tantomeno fattore di produzione per l’economia locale. E’ stato stimato che un utilizzo del
potenziale del Mezzogiorno di attrarre turisti stranieri in linea con la media nazionale porterebbe a
11 mila miliardi circa di euro il volume di entrate valutarie aggiuntive e a 280 mila nuovi occupati
nel Sud.
Cosa fare, allora:
1) Tutelare le coste invece che favorirne lo scempio ulteriore, semmai adottando serie azioni di
risanamento e recupero, lotta all’erosione ed all’inquinamento;
2) Diversificare l’offerta: non solo mega alberghi o seconde case ma anche e soprattutto bed &
breakfast, paesi-albergo, agriturismo, ostelli e strutture ricettive rispondenti alle esigenze dei diversi
“target” turistici a cui ci si deve rivolgere;
3) Allungare la stagione turistica intervenendo a sostegno e promozione del turismo congressuale,
termale e del benessere, naturalistico/ambientale, enogastronomico, storico/artistico e culturale,
scolastico, di quello sociale, degli anziani e degli altri soggetti deboli, e di quello sportivo;
4) Migliorare i servizi pubblici locali: basti pensare che un turista che arriva all’aeroporto di
Lamezia e voglia raggiungere le mete turistiche più vicine (Soverato, Vibo/Tropea) non ha alcun
mezzo pubblico a disposizione e per farlo rischia un vero e proprio calvario. O ancora basti pensare
alla cronica mancanza di acqua nei mesi estivi in numerose località turistiche della regione ed ai
disagi che essa comporta;
5) Fare della Calabria regione capofila del “turismo responsabile e sostenibile” e promuovere un
modello di “governance” del turismo che associ Province, Comuni, APT, operatori, forze sociali e
promuova marketing territoriale, evitando localismi, duplicazioni e sprechi inutili e dannosi;
6) Migliorare le infrastrutture a partire dall’ammodernamento della A3 e della SS 106, dal
potenziamento della rete ferroviaria (e non dal suo smantellamento come sta avvenendo per la
ionica), aeroportuale e portuale;
7) Sostenere e favorire occasioni di conoscenza del territorio da parte dei turisti che per la gran
parte si limitano alla settimana nel villaggio vacanze “tutto compreso” attraverso una capillare rete
di offerte culturali ed escursionistiche, di facile accessibilità e reperibilità;
8) Far conoscere e promuovere l’80% del territorio della regione costituito dalla montagna che
rappresenta un patrimonio unico ed ineguagliabile nel Mezzogiorno, sia per il turismo invernale che
per quello estivo, a partire dalla presenza e dall’esperienza dei tre grandi Parchi nazionali;
9) Far crescere una imprenditorialità diffusa, capace di produrre alto valore aggiunto basato sulla
qualità e l’innovazione nei diversi campi dell’offerta turistica e dei servizi ad essa collegati (dalla
ristorazione ai musei…);
10) Valorizzare, far conoscere, mettere in rete e sostenere tutte le realtà che già oggi esistono ed
operano positivamente, spesso in solitudine e controcorrente, per un turismo di qualità, come veri e
propri centri di eccellenza e base su cui fondare i sistemi turistici locali.
Ovviamente questo, come ogni altro decalogo, è credibile se protagonisti ne diventano non solo le
Istituzioni e se a sostenerlo non sono orientate solo le risorse pubbliche (peraltro ingenti e spesso
soggette a spreco o malaffare come sta accadendo per Agenda 2000), ma se diventa coscienza
collettiva in grado di coinvolgere tutti i cittadini in una sfida che finalmente faccia passare la
Calabria dalla “retorica del turismo” alla “buona pratica del turismo”.
Una delle risorse strategiche per uno sviluppo di qualità che l’intera regione può attivare per se
stessa, per il Mezzogiorno, per i Paesi del Mediterraneo è l’acqua, il patrimonio idrico regionale. Al
centro della regione, l’altopiano silano, da sempre emblema delle opportunità mancate, della
sottovalutazione delle potenzialità della montagna, da lungo tempo detiene il patrimonio idrico più
importante del Mezzogiorno: una media di 800/900 milioni di metri cubi annui di deflussi idrici a
valle; un sistema di bacini artificiali con una capacità complessiva di invaso di circa 300 milioni di
metri cubi, sfruttati soprattutto dall’Enel. Per dare un’idea del valore di questo patrimonio basta
pensare che l’acquedotto della Romagna che rifornisce di acqua circa 900.000 residenti e milioni di
turisti nella riviera, è alimentato dai 33 milioni di metri cubi dell’invaso di Ridracoli (vedi:
l’acquedotto della Romagna – consorzio acque – intr. G. Zanniboni). A fronte di questo
straordinario patrimonio idrico, la Calabria soffre una atavica sete a causa di un servizio idrico
civile di acquedotti in gran parte fatiscente, che penalizza le popolazioni e rappresenta spesso un
limite allo sviluppo complessivo: sono tantissime le aree dove l’industria, l’agricoltura, il turismo,
non hanno risorse idriche adeguate. A tanti anni di distanza dalla approvazione della legge Galli
nella nostra regione stenta a decollare una concreta attuazione del ciclo integrato dell’acqua.
Da studi di settore attendibili risulta che in Calabria una equa tariffa del servizio idrico renderebbe
possibile dai 10.000 ai 20.000 miliardi di vecchie lire di investimento nelle opere primarie. Questo
vorrebbe dire tantissimi posti di lavoro per la costruzione e per la gestione di aziende industriali e
moderne. La legge 36 prevede che una quota della tariffa idrica deve essere destinata alla difesa del
territorio da cui si ricavano le risorse, allo scopo di preservarne nel tempo le caratteristiche e la
disponibilità. Per la Sila questo significherebbe innescare un uso nuovo e corretto delle risorse
idriche a beneficio delle popolazioni locali. Definire un progetto di tutela e salvaguardia delle fonti
idriche della Sila.
Ciò significa difesa del suolo, sistemazione idrogeologica, riforestazione, consolidamento delle
frane, difesa dei fondali, vigilanza, risanamento igienico e depurazione, trattamento dei rifiuti per
difendere il suolo e la qualità delle acque. Rivedere le antiche concessioni idriche per assicurare un
ritorno dell’acqua ai fiumi che spesso sono abbandonati. Si tratta di ripensare una nuova politica per
la montagna servendosi della potente e finora sciupata leva della valorizzazione industriale a fini
pubblici e sociali della risorsa acqua. Controllo e gestione pubblica della risorsa acqua, costruzione
di una moderna gestione industriale della stessa, difesa e salvaguardia del territorio, tutte questioni
sulle quali è possibile costruire buona impresa e buona occupazione. Tutto ciò è possibile se si
sovverte radicalmente l’attuale approccio al tema, promovendo l’interesse ed il protagonismo dei
cittadini, dei lavoratori, delle popolazioni. Il sindacato confederale, la CGIL in primo luogo, intende
fare di questa questione una grande vertenza. Spetta al sistema istituzionale, a partire da quello
locale, alle forze politiche democratiche e di sinistra riuscire a fare sintesi politica degli interessi
sociali che questa risorsa muove, facendo diventare concretamente il patrimonio idrico una
componente essenziale di un programma di rinascita dell’altopiano Silano e dell’intera regione.
Iniziativa eolica da 300 Mwe in Calabria.La Calabria non ha motivi per imitare lo sviluppo di una
regione centro europea, che appartenga alla zona della Ruhr o all’Italia padana. L’Italia non ha un
futuro di industrie pesanti, tipo auto, acciaierie, chimica pesante. Quanto a raffinerie di petrolio ne
ha abbastanza. Il futuro della Calabria va quindi legato a qualità, informazione, ambiente, territorio,
prodotti tipici, turismo.
In Spagna, la Navarra si è qualificata in campo internazionale per l’impegno eolico. La Calabria
può tenere insieme gli impegni in campo formativo, con relativi servizi, ipotesi presenti nel CIES,
con energia rinnovabile, agricoltura di qualità, turismo intelligente ed altre produzioni in cui il
termine “qualità” segnala anche la forte intensità di informazione e la bassa intensità di energia.
L’ambiente, in questo senso, è un’opportunità verso il futuro, molto più che un vincolo.
Anche se appaiono poco realistiche le previsioni di realizzazione di impianti eolici nella Regione
per oltre 2000 Mw in una sessantina di comuni, come risulta dalle richieste di connessione
pervenute al Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (GRTN), in uno scenario prudenziale è
lecito definire un indirizzo di realizzazione di almeno una decina di impianti del tipo wind-farm con
gruppi di aerogeneratori eolici di media taglia in modo da raggiungere i 5-10 Mw per sito ed una
potenza totale installata nella regione di almeno 70 Mw, con una producibilità di un centinaio di
milioni di kwh/anno. Tale obiettivo risulta coerente anche con le indicazioni del Libro Bianco
sull’energia della Comunità Europea, che quantizza il contributo della fonte eolica alla copertura del
fabbisogno energetico in 40.000 Mw per l’intera Unione, mentre le indicazioni del Governo
nazionale indicano come possibili valori di potenza installata in Italia 2.500-3.000 Mw al 2008-
2012. Comparando i valori di cui sopra con l’estensione del territorio calabrese e la potenzialità
ipotizzata si conferma la possibilità per la Calabria di fornire un contributo pari al 2%-3%.
I valori ipotizzati, che possono apparire a prima vista ottimisti in assoluto e confrontati con la realtà
attuale, sono in effetti prudenziali se si prendono in considerazione i progetti già realizzati e quelli
immediatamente cantierabili nell’area del polo Apulo-Campano; la loro potenza assomma a diverse
centinaia di Mw in una zona ampia, ma tutto sommato relativamente limitata. Nella regione
Calabria, infatti, esistono ampi comprensori con potenzialità eoliche estese e diffuse, seppure con
caratteristiche di ventosità media alquanto più modeste dell’area Apulo-Campana; tuttavia anche
nei comprensori calabresi si raggiungono velocità medie del vento di 4,5-5 m/s e valori di energia
specifica definibili “interessanti” ai fini dell’utilizzazione energetica della risorsa eolica.
Oltre che per le centrali eoliche connesse alla rete elettrica il territorio calabrese offre significative
opportunità d’insediamento per gli impianti di taglia minore (7-15 kw) utilizzati per la generazione
stand-alone al servizio di utenze ad elevato costo di allacciamento alla rete oppure ad integrazione
della fornitura di rete. Le macchine di taglia minore, infatti, hanno caratteristiche funzionali che ne
consentono il funzionamento con soddisfacente efficacia/efficienza anche con velocità del vento
inferiore ai 4,5-5 m/s e possono essere installate in un elevatissimo numero di siti per le modeste
esigenze in termini di occupazione del territorio. Tra i principali vantaggi delle installazioni minori
si ricorda che l’energia prodotta può generalmente essere utilizzata in maniera efficace anche senza
dispositivi di accumulo specie nelle aziende agricole e che, utilizzando tecnologie con
componentistica particolarmente semplice, possono essere integralmente realizzate
dall’imprenditoria locale.
Imprenditorialità e lavoro.
(in itinere)
(*) Contributi di:
M. Alcaro, T. Perna, P. Bevilacqua, G. Lavorato, C. Cuccomarino, G. Latorre, G. Ananaia, S. Gambino, O. Pieroni, A. Ziparo, N. Iovene, Gruppo di medici coordinati da P. Alcaro, M. Covello, W. Fratto, P. Degli Espinosa, S. Cariati, S. Laganà.