di Antonio Barbieri
Lo spettacolo Annòun di Riccardo Caporossi, presentato come evento unico al Teatro dell'Acquario (Cosenza, 22 ottobre 1999) è stato il saggio che ha concluso il corso di Formazione Professionale per Attori che si è svolto per più di due anni a Cosenza sotto la direzione del Centro Rat che l'ha promosso e organizzato. Al di là degli esiti del corso e dei destini dei giovani allievi che lo hanno frequentato (proseguiranno il lavoro teatrale?), c'è da sottolineare la validità di un metodo di apprendistato di cui Riccardo Caporossi (fondatore con Claudio Remondi della compagnia Club Teatro, una delle più vitali e creative formazioni attive, sin dai primi anni Settanta, sulla scena del teatro di ricerca internazionale) è da anni "divulgatore", con i suoi numerosi laboratori che ha condotto in Italia non solo con giovani aspiranti attori, ma anche con bambini e persone amanti del teatro (dilettanti).
L' "Annòun" di Riccardo Caporossi è un'azione teatrale (un'ora circa) che attinge a piene mani da Samuel Beckett, come la stessa locandina chiarisce. Non del Beckett direttamente teatrale, ma del Beckett delle tredici sezioni dei "Testi per nulla" e della novella "La fine". Non a caso, la scena è riempita da tredici attori (femmine maschi), che simboleggiano i tredici "pezzi".
Al centro della tematica beckettiana c'è il tremendo interrogativo di Nietzsche: chi parla? Che in Beckett diventa: "Che cosa importa chi parla, qualcuno ha detto che cosa importa chi parla?". Così, l'avvio, a sipario chiuso, è una permanenza di oscurità, prolungata, che via via (ma la luce che arriva è mantenuta bassa, fioca) si stempera per mostrare un mucchio di vestiti accatastati, a sinistra, con in cima un cappello, e un uomo in mutande e camicia accovacciato, abbandonato su se stesso (testa sul petto, braccia conserte, gambe ripiegate), sopra un tappeto di panno, e circondato da altri esseri (ugualmente in camicia e mutande; piedi scalzi) che lo guardano con distaccata curiosità, come a chiedersi il da farsi di fronte a quell'inerzia, a quel crollarsi addosso. I dodici (che osservano e che decidono di rivestirlo, rimetterlo in piedi e di licenziarlo, consegnandolo al flusso del mero contingente), nel frattempo, camminano (peculiarità costante, definita e definitiva) sui talloni, come impediti, corrispondendo alle espressioni di Beckett: "la sua andatura di anitra" e, ancora, "a rimorchio dei miei piedi fatti per andare". Il gruppo è alienato totalmente dal reale. La scena, infatti, è spoglia. Luogo desolato di transito e di insicura attesa. Gli oggetti, a riprova, vengono dall'alto, in disappropriazione, distanza, negazione. Il rapportarsi è una sorta di operazione chirurgica in cui gli oggetti sono degli strumenti rigorosamente opachi, custoditi nelle tasche, trattenute nei capelli, scissi dal contesto del loro uso (la mascherina igienica del dottore, la penna d'oca, il foglio di carta, i fiammiferi, le candele).
Il leitmotiv è "Dove andrei, se potessi andare, cosa sarei se potessi essere". Ma non c'è dove andare, quantunque non sia possibile rimanere; e non c'è da essere, se non c'è stasi. In Beckett, l'unica condizione è quella fetale.
Alla fine, il solito gancio, dall'alto, porta via vestito e cappello. In modo tale da incoronarli del vuoto, metaforicamente, che hanno invano tentato di ammantare e fasciare, adornando la catastrofica verticalità conquistata dall'uomo. Fallace progresso che cela, ostentandosi, un più assurdo e irriconciliabile sgretolamento.
Difficile, credo, per gli "allievi", rendere un tanto intricato canovaccio testuale. Ne conseguono i complimenti più vivi per la mano ferma e sicura, sensibilissima, di Riccardo Caporossi.