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In ricordo di Totò Ameduri

di Nicola Siciliani de Cumis


Martedì 2 agosto, ore 11,30. Mi telefona Giovanni Mastroianni, per dirmi che Totò Ameduri è morto. Provvediamo, con altri amici, ad un necrologio su "la Repubblica", ma non potrà finire qui. Sull'uomo e sull'insegnante Ameduri, sulla sua personalità di cittadino di spicco, ci sarà certo da dire non poco. Chi gli è stato amico avrà importanti ricordi da amministrare: e occorrerebbe metterli tutti insieme, questi ricordi, perché Ameduri è ormai tutto, o quasi tutto, nelle memorie di chi lo ha conosciuto ed ha avuto a che fare con lui...
Il mese scorso, proprio Mastroianni mi aveva riferito di Totò: che stava molto male, ma che veniva definendosi come "il più allegro degli ammalati terminali". È l'Ameduri di sempre, ho pensato: l'Ameduri, che guarda la propria vita come attraverso un binocolo rovesciato: e, quindi, vede anche la morte incombente come un problema rimpicciolito. La morte che, pur galoppandogli incontro, non riesce a scontrarsi con il Totò, che invece l'aspetta come a teatro s'aspetta il finale chiarificatore dell'opera: l'agnizione, il "riconoscimento" del senso della vita che, scoperti gli altarini, consente tra gli applausi di mettere il binocolo dal verso giusto.
A me, che gli avevo telefonato da Roma il 13 giugno scorso, per fargli gli auguri di buon onomastico e per anticipargli che sarei andato a trovarlo in agosto, aveva sussurrato: "Se mi trovi...". E nelle pieghe della sua voce, avevo colto la solita inflessione lievemente autoironica che gli apparteneva. Fu del resto, nel corso della telefonata, l'Ameduri di sempre, fino all'affettuoso, sorridente "ciao".
Dopo di che, non ci siamo più sentiti. Per quanto desiderassi parlargli, io non gli ho più telefonato: un po' per scaramanzia, un po' per eccesso di ottimismo, coltivavo infatti la certezza che l'avrei rivisto. Invece, sono qui a far fronte allo scacco di non esserci riuscito; di non aver potuto incontrare un'ultima volta il "professore Ameduri", come talvolta mi capitava ancora di rivolgermi a lui - visto che gli avevo dato del "voi" fino a quando, non molti anni fa, non mi aveva invitato a chiamarlo Totò, perché i "vecchi amici", mi disse, "si danno del tu".
Proprio così. Quella con Ameduri, è stata un'amicizia quasi semisecolare (indipendentemente dal fatto che ci si vedesse o meno). Ci eravamo infatti conosciuti alla fine degli anni Cinquanta: io, mediocre studente di liceo al "Galluppi"; lui giovane professore di Ginnasio nella stessa scuola, con fama di super-bravo. Tra me e lui, otto anni di differenza. Da parte mia, la scoperta, in Ameduri, di una figura di intellettuale da eleggere, con pochi altri, a preciso punto di riferimento professionale ed umano; addirittura, da imitare, visto che fin da ragazzo avevo deciso di fare l'insegnante.
Ricordo il Totò degli anni Sessanta, a Catanzaro, professore di ginnasio al Galluppi, nei corridoi o davanti la porta dell'aula tra un'ora e l'altra di lezione. Lo ricordo all'uscita di scuola o all'edicola di Paparazzo, e poi sul Corso Mazzini, con Mastroianni e Augusto Placanica; e, in situazioni le più diverse, lo rivedo assieme a Don Giorgio Bonapace, Sarino Maida, Federico Procopio, Anna Brescia, Rosanna Siciliano, Attilio Borelli, Pasquale e Mario Alcaro, Amelia Paparazzo, Paolo Butera, Franco Piperno, Gianni Amelio, Piero Bevilacqua, Raffaele Teti, Mimmo Rafele, Giacomo Marramao, Lello Rauti, Gigi Daga, Franco Santopolo, Carlo Scalfaro, Maria Librandi, Sergio Bruni, Dino Vitale, Roberto Scarfone, Maria e Carmine Donzelli, Gregorio Di Paola, Roberto Galera, Marcello Furriolo, Nicola Ventura, e tanti altri. E lo vedo come se fosse ora al mare, sulla rotonda di Copanello: occhiali scuri, camiciola bianca inamovibile, con in mano l'altrettanto inamovibile "l'Unità", attorniato da qualcuno degli amici su nominati.
Ricordo il suo modo di porsi, con tutti noi; ed i pensieri che mi suscitavano la pacatezza e la esattezza del suo eloquio, l'equilibrio delle sue prese di posizione, la capacità di dire pane al pane vino al vino, la misura e lo stile nell'esprimere giudizi ora positivi ora riduttivi su persone e cose, il senso dello humour e delle prospettiva, la capacità di risoluzione di problemi. Ed era come se, nel suo modo di essere, sapessero coesistere insieme spazi limitati e spazi infiniti, tempi lunghi lunghissimi e tempi brevi brevissimi: e dunque, tra tali estremi, risaltasse in primo piano la sua capacità di starvi come nel mezzo, da sacerdote di verità assolute e, al tempo stesso, come semplice portavoce del buon senso.
Ricordo gli interventi di Totò, in politica e nel sociale, sempre molto equilibrati e costruttivi: così nelle Sezioni e nella Federazione del PCI, al Centro "N. Vaccaro", al "Galluppi", in qualche sala cinematografica la domenica mattina, in piazza, in chiesa, in altre sedi pubbliche; e a casa Mastroianni o Placanica. Ricordo le attività di Ameduri per la CGIL-Scuola e per il Provveditorato agli studi di Catanzaro, in Commissione graduatorie, in Commissione nomine, in Commissione ricorsi, ecc.
Ricordo, in varie occasioni, il suo modo attento e rigoroso di leggere i testi degli autori antichi, moderni e contemporanei; e i continui, opportuni riferimenti alle fonti: i collegamenti storici; la sua interdisciplinarità. La sua moralità storiografica, la sua pietas politica... Parlavamo spesso e volentieri, allora, del "dialogo" tra cattolici e comunisti, commentando talvolta gli articoli di Lucio Lombardo Radice su "l'Unità" o su "Rinascita". E non dimenticherò mai, di fronte alla vetrina della libreria Mauro, la sua reazione alla strage di soldati belgi in Congo, l'anno che uccisero Lumumba: "Ma perché, Nino, perché succede tutto questo?". Lo chiedeva a me, quasi parlando tra sé e sé; ma capivi che non eravamo noi due, né lui, né io, il primo destinatario della sua domanda.
Ricordo le case, dove ha abitato, il suo studio, i suoi libri. E le "sue" persone care: anzitutto Irene, gli altri familiari ed amici, che gli vivevano o gli erano morti accanto, come la cognata Annamaria, pittrice, scomparsa da giovane, cui era molto legato. Come Francesco, che mia moglie Annamaria ed io avevamo conosciuto e che morì tragicamente. Accadde negli stessi giorni in cui nasceva Matteo, il nostro terzo figlio; così che, come secondo nome, Annamaria ed io decidemmo di chiamarlo Matteo Francesco. Quel ragazzo, quando andiamo al Cimitero, è per noi, ancora oggi, uno dei nostri morti.
Ho sempre sentito parlare di Totò come di un "un uomo buono". Come non essere d'accordo? La sua "bontà", che assieme all'"onestà intellettuale", all'"umanità", alla "disponibilità", al "disinteresse", è la prima qualità che, pensando a lui, non può non venire in mente. Ma che significa, nel suo caso, "bontà"? Non solo, semplicemente, che egli non era capace di far del male nemmeno ad una mosca; e neanche, genericamente, che aspirasse a fare, come che sia, del bene. La bontà di Ameduri era un meccanismo molto complicato, che incominciava, sì, a funzionare mediante una miscela di originaria mitezza e di cultura acquisita; ma che, per dare il meglio di sé, esigeva l'ausilio di un'interattività umana elementare, fatta di reciproca disponibilità dialogica, mutua condivisione di obiettivi, aperta accondiscendenza collaborativa, positiva incidenza del dubbio, prudente ricerca di soluzioni, evidente senso della prospettiva.
È in quest'ottica che si spiega, tra l'altro, la maieutica speciale del Professore Ameduri, che consisteva nell'apprendere dagli altri, prima che nell'insegnare agli altri; nell'azzerarsi, quasi, come uomo di cultura, per fare posto alla crescita della cultura altrui. Perché ciò che per lui, nei rapporti con il prossimo, veniva prima di ogni altra cosa era la motivazione dell'interlocutore, e quindi la spinta ad agire di conserva, in tale o tal'altro modo. Per questo la sua grande cultura non impauriva, incoraggiava soltanto. Per questo, tra timidezza del fare e coraggio del non fare, si situava la possibilità del "pedagogico"; sicché, dall'esterno, poteva addirittura sembrare che Totò volesse sparire, annullarsi come persona ("E pigola sempre più piano", diceva di lui qualcuno): per ridurre, così facendo, il peso della sproporzione che avvertiva, tra l'enorme bisogno di modificare in meglio il mondo, e la consapevolezza dei propri limiti ad operare in tale direzione.
Accadeva allora che Ameduri facesse le proprie scelte da intellettuale, in senso radicalmente autocritico, anti-intellettuale; e che si rendesse esplicita più la sua volontà di alleggerirsi del peso della sua cultura acquisita, che non il desiderio di farsi in prima persona produttore di nuova, alta cultura. Ecco perché, forse, Totò non lascia, che io sappia, scritti di natura scientifica, documenti della sua bravura tecnica di filologo e di critico letterario. E quel poco che mi risulta avere pubblicato (magari "perché Sarino gli ha messo la penna in mano..."), rientra sempre, in un modo o nell'altro, nella sfera del "servizio culturale": come articolo d'occasione, prefazione al libro di un amico, cura di testi di spiritualità evangelica, ecc.
Ecco, probabilmente, dove nascono e convivono insieme la sua particolare religiosità e il suo peculiare laicismo. Il suo attivismo pedagogico, inversamente proporzionale al suo "sapere", e calibrato invece sui bisogni degli altri e sul loro possibile soddisfacimento. Ecco, allora, l'attenzione e la cura da lui riservata a portatori di handicap, nelle diverse forme. Ecco, infine, il suo impacifico pacifismo: e quella sorta di profilassi culturale e interculturale che, rivolgendosi al tempo stesso agli individui, ai gruppi, virtualmente alle masse, tenta di prefigurare delicatamente, tra le pur evidenti contraddizioni, almeno l'immagine del "paese che non c'è". Ed è così che il "buon Totò" finisce col rassomigliare un po' allo zavattiniano Totò il buono, nella ricerca di "un paese dove buon giorno, vuol dire davvero buon giorno".
Provo a integrare i miei pensieri "a braccio" ancora con un ricordo, di una quarantina d'anni fa. Solita situazione: uscita da scuola, siamo in tre, Mastroianni, Ameduri ed io. C'è un argomento di cui loro due discutono: se partecipare o meno, Ameduri, ad un certo concorso a cattedra... Totò è per il no; Mastroianni, per il sì. Quanto a me, che non ho voce in capitolo, li ascolto interessatissimo, un po' per capire da quale parte stare nella situazione specifica, un po' perché so che da lì a qualche anno mi troverò io stesso con il medesimo problema di Ameduri, da risolvere per me. Intuisco però che, dietro all'argomento in discussione, c'è un altro tema che rimane sullo sfondo; ma che, a ben vedere, è il vero motivo della discussione.
Alla sua maniera, Mastroianni, che stimava moltissimo Totò, voleva stimolarlo a studiare, ad impegnarsi "scientificamente", su un qualche tema, nelle sue discipline. Ma Ameduri, che era molto intelligente, coltissimo e fermo fermissimo nel seguire la propria strada, non era tipo da farsi condizionare più di tanto. E, se di fare carriera volle saperne solo quanto bastava per svolgere un ruolo istituzionale di insegnamento e di formazione culturale di alto profilo, al Ginnasio prima, al Liceo dopo, era l'idea di una didattica come mediazione culturale tra "indagini scientifiche" e "senso comune" ad intrigarlo totalmente. Anche se poi questo non lo soddisfaceva del tutto.
Di qui, non solo la presenza e l'attività di Ameduri in altri luoghi pubblici cittadini (partito, sindacato, parrocchia, centri di cultura, sedi assistenziali), ma anche e soprattutto l'attenzione di Totò per le situazioni individuali, per le singole persone, per le richieste di aiuto culturale, morale e fisico a chiunque gli si fosse fatto avanti. Di qui, da un lato, la laboriosa pigrizia ("mi siccu puru ma campu") dell'Ameduri non interessato a provare tutta la forza della propria intelligenza critica, mediante ricerche scientifiche e pubblicazioni di risultati, ma impegnato piuttosto a prestare aiuto agli altri in molteplici situazioni; da un altro lato, la pedagogia eccentrica, paradossale, etero-referenziale, dell'Ameduri dell'ascolto degli altri, piuttosto che dell'intervento monografico rigoroso, esclusivo, diretto verso gli altri: e quindi apertamente chiuso alle costrizioni disciplinari coincidenti con una qualche limitazione delle proprie urgenze altrui (se così si può dire).
C'era in effetti, in Totò, un'istanza di tipo assistenziale verso il prossimo, di stampo religioso (il "pio Ameduri"!), che tuttavia non si acquietava nell'umbratile intimità del "sentimentale"; voleva invece uscire allo scoperto, come fatto di specifica rilevanza politico-sociale. In questo senso, la principale lezione di Totò Ameduri alla Città è stata proprio questa: di offrirle gratis tutta la cultura di cui egli poteva disporre, lasciando che ciascuno gliene richiedesse secondo i propri bisogni.
In questo gioco di "domanda" e "offerta" della profusione del "sé" come un bene culturale vivente, si è consumato il senso di una presenza, che tanto più sembra oggi notevole e degna di memoria, quanto più, in una Catanzaro deprivata dei suoi "tafàni", risulta essere come la perdita di una risorsa umana più "unica" che "rara".



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