Il presente contributo nasce in seguito ad uno scambio di idee intorno
all'agricoltura ed ai suoi mutamenti nel corso degli anni, cioè circa i problemi
derivanti dalla evoluzione del settore agricolo nell'ambito del territorio
provinciale crotonese.
Questa riflessione non avrebbe avuto inizio se non mi fossi posto alcune domande
per molti versi fondamentali: perché parlare di agricoltura? Perché
lo si fa in questo momento, forse uno dei più critici? Perché analizzare tale
comparto a partire sin dagli anni Cinquanta ad oggi? A cosa serve una
discussione di questo tipo? Forse ad individuare errori politici o di scelte e
di strategie che hanno in qualche modo favorito una mancanza di crescita e di
specializzazione del territorio? In altri termini, quale modello di sviluppo
abbiamo, o non, scelto in questi anni?
Ecco dunque in sintesi i "perché" che hanno affollato la mia mente.
Partiamo da un dato di fatto: nella nostra piccola provincia non ci può essere
sviluppo se non mettiamo al centro delle nostre attenzioni l'agricoltura
con tutto il suo universo: la salvaguardia dell'ambiente e del territorio, la
tutela del paesaggio, la sicurezza alimentare, la qualità delle produzioni
tipiche, un
patto straordinario con la società.
Nella nostra provincia, purtroppo, manca proprio la cultura del "fare" ed impera
invece quella del "disfare" e dell'autolesionismo, tendiamo ad isolarci
convinti che coltivare il proprio orticello serva a qualcosa. Manca cioè un
progetto strategico innovativo capace di funzionare come una grande orchestra
dove ogni strumento fa la propria parte.
In passato le cose erano diverse. Nel secondo dopoguerra le trasformazioni in
agricoltura hanno subito una vera e propria accelerazione. Infatti,
l'importanza dell'agricoltura nei numeri è stata più o meno lineare dall'Unità
d'Italia fino alla seconda guerra mondiale, passando da circa 11 milioni di
addetti del 1860 a quasi 9 milioni nel 1940. Subito dopo il periodo della
ricostruzione, terminato con i primi anni '50, si è invece verificato un forte e
rapido "esodo agricolo" sia verso l'estero che all'interno del paese. Il
contemporaneo processo di sviluppo industriale, il cosiddetto "miracolo
economico"
italiano, ha sancito la definitiva affermazione dell'Italia fra i paesi
maggiormente industrializzati, cambiando radicalmente, come mai in precedenza, i
rapporti tra città e campagna.
Nonostante la fortissima contrazione dell'occupazione (circa 1,4 milioni di
unità), la produzione agricola italiana ha tuttavia fatto registrare negli
ultimi
quarant'anni dei tassi di sviluppo elevati, superiori a quelli di tutti i
periodi precedenti, grazie anche alla forte diffusione della meccanizzazione e
del
progresso tecnologico e scientifico, soprattutto nelle zone irrigue di pianura.
La produzione agricola è infatti più che raddoppiata in termini reali nel
secondo dopoguerra.
I maggiori incrementi produttivi si sono verificati proprio tra la fine degli
anni '50 e '60, quando l'agricoltura è riuscita a soddisfare, almeno in parte, i
crescenti fabbisogni alimentari che si andavano affermando nel paese.
In questa cornice storica va inquadrato la straordinarietà del progetto "Piano
irriguo Neto-Tacina-Passante" prendendo il nome dai tre fiumi. Un
progetto tanto buono quanto contrastato, proprio perché metteva in competizione
territori all'interno della Calabria ma anche fuori dei confini regionali,
eppure gran parte di quel sogno ritenuto allora utopistico oggi è stato
realizzato. Non provo neanche per un attimo ad immaginare che cosa saremmo
oggi senza questo piano.
Andrebbe approfondito e meglio analizzato il periodo in cui le idee di progresso
e di sviluppo economico e sociale avanzate coincidevano con l'idea
delle Organizzazioni e della richiesta che proveniva dalla società.
Oggi registro anche la mancanza di un'idea progettuale politica, capace di
ridare speranza ed orgoglio ad una terra che da alcuni anni ha deciso di
non lottare e che sta abbandonando l'idea che un cambiamento di rotta è
possibile.
Non consideratemi un pessimista cosmico, ma non abbiamo più quella passione e
tenacia che servono per realizzare e far partire le grandi idee. Il
piano irriguo ha dato alle nostre terre quell'input grazie al quale si sono
prodotti alimenti di pregio elevato che hanno avuto riconoscimenti nazionali
quali,
ad esempio: le angurie della valle del Neto, le arance, la barbabietola da
zucchero, i pomodori, i finocchi, una zootecnia all'avanguardia.
Nel corso di questi ultimi quarant'anni si è verificata poi un'integrazione nel
sistema agroalimetare: agricoltura, industria alimentare e distribuzione,
con il crollo del sistema distributivo tradizionale e la diffusione della grande
distribuzione organizzata (supermercati, ipermercati, discounts).
Anche se ancora oggi abbiamo una presenza di piccole industrie alimentari
bisogna riconoscere che sono enormi gli sforzi per valorizzare le
produzioni tipiche e locali. L'impegno è quello di legare le produzioni locali
alla nostra storia, alla nostra cultura. La ricerca di una agricoltura
sostenibile e
compatibile con l'ambiente rappresenta, inoltre, una delle nuove sfide che
dovranno essere affrontate nei prossimi anni, non solo per ricreare e sviluppare
dei rapporti più stretti fra città e campagna, ma anche fra produttori,
consumatori e soprattutto con la società tutta.
Ci troviamo nel mezzo di un passaggio cruciale della vita della nostra
agricoltura, con la scelta dell'Unione Europea di modificare sostanzialmente la
Pac (politica agricola comune) e di abbandonare la strada di un sostegno
all'agricoltura basato sulla produzione ed attivare invece il "disaccoppiamento".
In altri termini, se prima venivano dati dei contribuiti agli agricoltori che
dimostravano di produrre quantità di prodotto secondo quanto stabilito dalle
"quote", per cui un soggetto che possedeva 10 vacche per avere diritto al premio
doveva sempre mantenere lo stesso numero, senza guardare alla qualità
ed obbligando il produttore a mantenere gli stessi capi, oggi le quote si sono
trasformate in "diritti" prendendo in riferimento gli anni 2000, 2001 e 2002.
Al produttore fino al 2013 verranno riconosciuti la media degli importi che lui
ha percepito negli anni di riferimento, passando quindi da una politica di
sostegno alle produzioni ad una politica di sostegno ai produttori.
Quali dunque le conclusioni? È difficile prevedere con esattezza cosa procurerà
questa riforma, di sicuro pone gli agricoltori a competere e
confrontarsi sul mercato globale.
Ritengo che il nostro territorio debba scegliere un'unica strada, che non può
essere quella di competere con la quantità che arriva dalla Cina o con
produzioni di indubbia provenienza, noi dobbiamo scegliere la strada dell'alta
qualità e delle produzioni sostenibili, con un occhio attento alle produzioni
agroenergetiche "biodiesel-biomasse". Siamo obbligati a scegliere la "multifunzionalità",
cioè non solo produrre prodotti di grande qualità, ma produrre di
pari passo servizi ambientali, culturali, ricreativi e prodotti no food.
A distanza di quarant'anni siamo chiamati dalla storia a fare scelte
fondamentali per il nostro territorio, sbagliare adesso significherebbe la fine
del
comparto agroalimentare; questo dobbiamo impedirlo e nessuna Organizzazione di
categoria e soprattutto nessun partito politico può permettere che ciò
avvenga.
Dobbiamo avere la forza ed il coraggio di scegliere politiche volte a promuovere
strategie di sviluppo che impediscano la desertificazione sociale
delle aree interne e montane, l'abbandono dei giovani dai campi, le illusioni di
posti di lavoro garantiti dal "signorotto" di turno. Dobbiamo guardare ai
giovani con un occhio diverso, sono loro la nostra vera speranza, la nostra
unica alternativa, in fondo è da loro che abbiamo preso in fitto la terra che
coltiviamo.