Dal teatro al cinema: Shakespeare e Olivier,
Catanzaro 2003
Ci occupiamo di questo piccolo volume, perché lo riteniamo di notevole fascino, sia per chi si interessa di teatro, sia per chi si interessa di cinema. L'autore ha sviluppato in modo organico e compiuto un saggio di rara efficacia letteraria, scritto con uno stile denso, breve, sempre incalzante, ma nel contempo di piacevole lettura. Il risultato è un’attenzione del lettore costantemente desta, fino alla conclusione di ogni argomento.
Vi si tratta di alcune delle più note tragedie shakespeariane, rivisitate (per così dire) da quel grande attore e regista che fu Laurence Olivier: Amleto, Riccardo III ed Enrico V. Nel lavoro, vengono dunque messe a confronto “due personalità che, pur in campi diversi, hanno espresso, a giudizio pressoché unanime, quanto di meglio il loro tempo potesse offrire”: da una parte, il genio poetico e drammatico di William Shakespeare; dall’altra, la grandezza interpretativa di un altrettanto geniale personaggio come Laurence Olivier. L’impresa di quest’ultimo era veramente ardua, ma le sue trasposizioni cinematografiche delle tre tragedie, alla fine, furono un autentico successo. Non stiamo qui a ripercorrere le tappe del lavoro del regista, perché toglieremmo il gusto della lettura del libro, cosa che consigliamo a chiunque abbia a cuore la cultura inglese del periodo shakespeariano e quella dell’Inghilterra contemporanea.
Rispetto a Shakespeare, ci troviamo, con Olivier, di fronte a un concetto in certo modo più ampio della storia di quell’epoca, che vide come protagonisti personaggi, le cui vicende personali si intrecciavano con quelle della Corona inglese e vi si incastonavano in modo esemplare. E il merito dell’A. consiste nell’aver avuto, anzitutto, una grande pazienza e cura filologica nell’esame attentissimo delle fonti, delle caratteristiche precipue, delle somiglianze e delle differenze tra i due grandi. Scene shakespeariane omesse da Olivier, e scene introdotte, per così dire, arbitrariamente, hanno conferito al lavoro del regista un’originalità che avrebbe potuto essere messa costantemente a rischio, ove la riduzione cinematografica fosse risultata una pedissequa trasformazione di spettacolo da teatrale a cinematografico. Al contrario, Olivier, pure nel rispetto sostanziale dell’opera shakespeariana, dimostra sempre quella che si può tranquillamente definire una “trasparente efficacia creativa (ché di creazione vera e propria si tratta)”. Pertanto, nello spettatore dei films, viene suscitata sempre, in certo modo, una forte spinta ugualmente fantastica. Una nota importante, anche dal punto di vista politico in senso ampio, consiste nel fatto che Olivier assuma talora i personaggi shakespeariani come “strumento” proprio, per affermare la dignità del popolo inglese e la grandezza delle sue istituzioni. A supporto della sua rivisitazione del mondo shakespeariano, egli usa anche mezzi tecnici che solo il cinema gli può offrire: ci riferiamo, ad esempio, all’introduzione di un particolare osservatore (che a volte si vede in modo esplicito) alla rappresentazione di azioni simultanee, alla narrazione contemporanea di due storie e così via, in una straordinaria miscela di realismo, teatralità e pittoricità espressiva.
Per concludere, diciamo che il saggio è condotto con una dovizia di particolari e dettagli, che costituiscono certamente il segno di uno strenuo impegno di analisi e di riflessione critica. Alcune osservazioni di tutto rispetto, certi approfondimenti dei modi, del carattere e degli atteggiamenti dei due grandi testimoniano, oltre che una grande passione per la materia trattata, anche, e soprattutto, una vivace intelligenza dell’A., e una evidentemente innata attitudine all’indagine psicologica sottile e puntuale delle diverse esperienze sentimentali e poetiche, non disgiunte peraltro da una concreta e sicura visione storica e culturale del mondo inglese, non solo in relazione al passato recente, ma anche a quello ormai remoto del XVI secolo.
Un solo piccolo appunto: avremmo gradito una maggiore attenzione alla consequenzialità delle argomentazioni, nel senso che, talora, alcune “collocazioni” temporali si sarebbero potute organizzare meglio. Tuttavia, è chiaro che questo nulla toglie alla validità e – ci sembra doveroso sottolinearlo – all’autentica originalità dell’impianto generale del lavoro di Katia Reda. Riteniamo, in ultimo, che oggi non sia per nulla facile rinvenire – nella vastissima letteratura di opere che sembrano scritte per il solo gusto di scrivere e che poco o nulla aggiungono alla storia della cultura – lavori come questo, che hanno una concreta giustificazione letteraria, storica e culturale in senso ampio.