Sono passati più di cinquant’anni dall’orrore rappresentato dall’olocausto, ed è doveroso non dimenticare quello che è stato questo drammatico evento che purtroppo molti prima di noi hanno dovuto sopportare sulla loro pelle. Auschwitz è infatti un fallimento bruto; chi vi è stato porta dentro di se le tracce di un essere che è stato ma che non è più: è un luogo simbolo della più grande festa della morte che l’uomo abbia mai allestito per l’uomo nel corso della storia. Ad Auschwitz tutto si è svolto nel silenzio, ma più che silenzio si tratta di fenomeni di interiorizzazioni che hanno portato la logica a confondere una parola sottile con il silenzio. Non è un silenzio reale ma piuttosto un’alienazione della parola, un parlare senza parole.
Auschwitz costituisce nello stesso tempo un’interruzione nella parola e della parola poiché non vi sono parole che possono descrivere ciò che è realmente accaduto, per trasmettere il vissuto nella sua integrità, ma nello stesso tempo non è neanche giusto rimanere in silenzio perché fu proprio il silenzio , complice, a permettere che Auschwitz accadesse.
Agamben nel suo libro Quel che resta di Auschwitz ci fa conoscere come avveniva ad Auschwitz la fase finale dello sterminio. L’orrore dei forni crematori è, dunque, secondo l’autore, una delle ragioni che possono spingere un deportato a sopravvivere per diventare un testimone. La testimonianza, comunque, costituisce un processo assai complesso che coinvolge almeno due soggetti: il primo, il superstite, che può parlare ma che non ha niente d’interessante da dire, e il secondo, colui che ha toccato il fondo, e ha perciò molto da dire ma non può parlare; dunque per Agamben soggetto della testimonianza è quello che testimonia di una desoggettivazione.
Secondo Jacques Derida invece il testimone è colui che vive un determinato istante e si assume il compito di riviverlo secondo una modalità particolare; chi ha visto o sentito qualcosa è colui che si trova nell’istante, in un presente definito, in una scansione temporale precisa, talmente peculiare da essere irripetibile. La testimonianza, quindi, si fonda sulla possibilità che l’istante possa ripetersi nel momento dell’attestazione. L’istante ha qualcosa di proprio, si caratterizza per il fatto di essere breve: è un piccolissimo lasso di tempo, preciso, situato in una durata e distinto esattamente da qualcosa che lo caratterizza. Solo l’evento consente di identificare l’istante, ma sorge più di una perplessità circa il fatto che la narrazione testimoniale corrisponda all’istante: “Il testimone giura di dire la verità”, promette l’autenticità. Ma persino laddove non cede allo spergiuro, l’attestazione non può non intrattenere una torbida complicità con la possibilità, almeno, della finzione.
Dunque, a mio parere e il testimone hanno svolto un ruolo centrale; infatti senza il loro contributo sarebbe impossibile oggi conservare la memoria. E a questo punto non posso che citare il testimone per eccellenza, Privo Levi, che con il suo libro Se questo è un uomo ci racconta la storia del Lager, ovvero l’umiliazione, l’offesa, la degradazione dell’uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio di massa.
Chimico torinese, Levi fu catturato dalla milizia fascista alla fine del 1943. Essendo ebreo, oltre che partigiano, fu consegnato ai nazisti che lo deportarono ad Auschwitz. Se questo è un uomo nasce dunque dall’uomo, ma non è un’opera della sua fantasia; scrivere queste pagine è costato sofferenza e noi dobbiamo fare lo stesso sforzo: cancellarci come lettori, sentire dentro quella stessa sofferenza fisica fatta di ore, giorni, anni e tentare di immaginare che qualcuno quelle sofferenze le ha provato veramente; questo significa vivere il passato, non dimenticare.