Ho partecipato alla fine del mese di aprile presso l'università di Cosenza al convegno sulla filosofia e le culture del mediterraneo, dove Marta Petrusewicz indicava nel suo intervento alcuni miti fondanti e comuni alle civiltà di questa area, e mi sono chiesto se lei stessa conoscesse il rito che si celebra ogni primavera in provincia di Cosenza, ad Alessandria del Carretto, ai confini con la Lucania.
Fin da quando mi sono avvicinato alle feste del maggio mi è sembrato di riconoscere nell'antagonismo tra bosco e città e nel tentativo degli uomini di emanciparsi dall’appartenenza al clan e alla foresta, uno dei tratti più forti dell'identità dei popoli che hanno abitato le terre dolci e aspre intorno al mediterraneo, nel passaggio ad un ordine nuovo, regolato dalle leggi, dove l’uomo naturale diventasse individuo sociale.
Avevo scoperto da ragazzo “Ju Majo”, il maggio di Pastena, in provincia di Frosinone, poi nel 2002 grazie ad un amico, che neanche a dirlo si chiama Angelo Maggio, ho avuto modo di assistere alle fasi della festa che si svolge sul Pollino e da allora torno volentieri a farmi coinvolgere.
In entrambe le località, un albero viene trascinato da un bosco vicino, fin nella piazza dei paesi per esservi eretto.Si tratta di un abete bianco, di qui il nome “ a pita”, nella festa di Alessandria, e di un cipresso, ma potrebbe trattarsi anche di un cerro o di un castagno, purché alto e dritto, a Pastena.
Le affinità sono evidenti e denotano la stessa origine, pur con alcune differenze legate soprattutto alla diversa posizione orografica: a Pastena il corteo deve attraversare la pianura popolata di animali. Il ruolo degli animali, una giovenca e decine di coppie di buoi, quindi è fortemente indicativo di un passaggio agricolo; mentre ad Alessandria si percorre un sentiero scosceso; dalla cima del bosco si scende tirando a mano la pianta direttamente dentro il paese. Qui però c’è una parte musicale molto sviluppata, con numerosi gruppi di suonatori che accompagnano ininterrottamente tutte le fasi.
Il maggio di Pastena e quello di Alessandria sono essenzialmente un gesto fondativo di un nuovo ordine, come si diceva, in cui il vecchio spirito del bosco viene condotto a rivivere e santificare la nuova terra conquistata, assoggettata, confinata tra mura, proprio lì al “centro del mondo”, la piazza della città nuova.
Una commissione di anziani sceglie la pianta che si ritiene possa essere adatta alla cerimonia, con non poche polemiche e problematiche sorte da quando la zona è diventata parte del Parco Nazionale del Pollino. A testimonianza di come la gretta burocrazia possa finire per limitare una festa che vede nella natura e nel suo rispetto sacrale la sua identità, da qualche anno non può essere più tagliata la pianta ma si prende il tronco adatto caduto per vie naturali (..sic!) durante l’inverno.
L’ultima domenica di aprile, quest'anno la festività è caduta il 24, giovani e adulti salgono all’alba sul luogo indicato che tuttavia si trova dentro il territorio del Comune limitrofo di Terranova (Lucania), e iniziano a imbrigliare e legare il tronco a putrelle trasversali di legno, tramite anelli conficcati nel legno e rami di pruno giovane riscaldati al fuoco e intrecciati come funi. Questi paletti trasversali fungeranno da staffe per il trasporto interamente a mano nel Comune di Alessandria.
Anche a Pastena una commissione di anziani sceglie la pianta più adatta, segnandola con un segno di croce e individuandone un'altra di scorta nel caso si verificassero dei danni durante le fasi del taglio. Qui, intorno alle sette del mattino del 30 aprile, il prete recita sotto l’albero alcune litanie che hanno sostituito l’orazione funebre per la pianta tagliata (orazione di Zi Peppe) che ad Alessandria ha trovato l’equivalente nella commemorazione, prima di avviare il corteo, di compagni morti durante l’anno trascorso, come mi è capitato di registrare nel 2002. Ma curiosamente anche ad Alessandria sono attribuite ad un Zi Peppe, nome ricorrente in tutti i riti magici contadini, le poesie sull’albero e sulla cerimonia che vengono ricordate in paese.
Poi in entrambe le località tra grida festose, urla e spari a salve di cacciatori, si muove la massa di persone che trascina la pianta a mano fuori dal bosco.
Ad Alessandria tutto il corteo si svolge nei boschi e nella montagna fino a ridosso del paese. A Pastena è invece evidente che dopo le fasi del bosco è netta e separata una seconda parte che si svolge in pianura lungo i campi seminati, dove un vitello è stato lasciato libero e dove lo stesso, al limitare del bosco sta ad attendere il corteo della pianta già tagliata. Durante questa sosta vengono sorteggiate con la conta tra i bovari le coppie di buoi che tireranno il tronco-aratro fino alle porte del paese e le prime tre che lo trascineranno a mezzanotte dello stesso giorno, fin sopra la piazza.
Già nelle prime fasi del “maggio” è marcata la differenziazione dei ruoli maschili e femminili nei due casi in osservazione. Le azioni nel bosco vedono l’esclusiva partecipazione degli uomini, e si ricollegano ad arcaiche scene di caccia. Contribuire al taglio della pianta, almeno con un colpo d’ascia, è per i più anziani dimostrazione di vigore ed occasione di rigenerazione. I più giovani ad Alessandria come a Pastena sono davanti a tutti a tirare. La loro forza è garanzia per il futuro. L’abilità degli adulti si manifesta nel costruire la macchina di pertiche e funi per il trasporto e la successiva erezione.
Le donne sono delegate alle funzioni nutritive, alla preparazione dei cibi e dei dolci che a Pastena vengono serviti lungo le soste del corteo e alla sera a casa del Mastro. Ad Alessandria appena fuori le mura si imbandisce un lauto pranzo che le donne portano dentro grosse ceste per rifocillare i loro uomini dalle tremende fatiche del trasporto.
Esse se ne stanno fuori del lavoro convulso, a guardare che gli uomini si attivino, e mantengono, così come nella vita, una presenza stabile e mediatrice tra padri e figli, adulti e adolescenti, tra la tradizione ed il suo rinnovarsi.
A Pastena il rito prevede un capo sorteggiato in chiesa da un elenco di capifamiglia. Un capomaggio. Ma ad ogni fase, in entrambe le cerimonie, diversi leader sovrintendono e dirigono le operazioni, sia da quando si sceglie la pianta, e poi durante il taglio, nelle fasi del trasporto e quindi dell’erezione. Si tratta di personaggi che nella vita reale non ricoprono cariche ufficiali, ma il loro è un “saper – fare” utile alla sopravvivenza della comunità, non un potere sulle persone.
Nel rito di Alessandria diventa particolare e festosa, la presenza musicale che a Pastena è ridotta al suono incessante del tamburino di Biagio in tutto il suo svolgimento. Al suono della surdulina la piccola zampogna del Pollino, oppure con organetti, fisarmoniche e tamburelli e altre zampogne a canna lunga, i migliori suonatori della zona, tra cui annoveriamo Pino Salamone, maestro costruttore di Terranova e Zi Pietro di Alessandria, si portano lungo il tracciato e precedono il corteo, costretto a fare diverse soste per l’asperità del terreno. Litri e litri di vino vengono serviti ai portatori e a tutti i protagonisti.
Il trasporto della pianta tagliata dal bosco fino alla città ripropone un vero corteo funebre, contraddistinto da soste e offerte di cibo. Mondo animale e mondo vegetale sono uniti nella vita e nella morte nel maggio di Alessandria e di Pastena, in questa cerimonia dove rito agrario e rito funerario sono strettamente connessi.
La Chiesa ha cercato di far coincidere queste feste col suo calendario, ma in genere i rapporti con questi riti sono stati sempre alquanto vivaci.
Il Concilio Cartaginese nel 397d.C. condannò il culto pagano degli alberi. Il Sinodo di Alba (1626) e di Alessandria (1702) proibirono il Calendimaggio.
Ma se a Pastena e nel Pollino ancora oggi sopravvivono come in una nicchia preistorica queste cerimonie arcaiche lo si deve anche alle sovrapposizioni cristiane che hanno in qualche modo ricondotto ad una sacralità ufficiale e quindi accettabile dalla comunità ciò che sarebbe stato cancellato dal tempo. A Pastena il rito magico è stato inglobato nella festa della Santissima Croce, che non a caso si celebra il tre maggio, dove appunto il legno sacro è divenuto simbolo centrale del sacrificio e del riscatto che sta al centro della religione cristiana.Ad Alessandria la festa è ricondotta al Santo patrono che ha dato il nome, e non a caso, alla città, sant’Alessandro che si celebra appunto il 3 maggio. Qui, prima della processione con la statua del santo, quel giorno si tiene la tradizionale riffa con offerte in danaro.
Al mattino del primo maggio il tronco dell’albero, reso liscio per il tormentato cammino e per l’ultimo tragitto compiuto a mezzanotte, quando è stato trascinato lungo una stretta viuzza fin sulla sommità del paese, giace in solitudine nella piazza di Pastena.
Nel silenzio, ad uno ad uno, spuntano dai vicoli gli uomini a predisporre la buca, profonda un metro e mezzo, ed a levigarlo definitivamente con le asce. Sul ciuffo di rametti che é rimasto alla sua estremità viene unito un piccolo fascio di fronde di ginestra (fiori di maggio), ed una croce di legno. Anche a Pastena, come nelle cerimonie calabro-lucane, sulla cima del tronco é legato l’alberello-femmina, qui insieme alla croce.
Ad Alessandria, la parte femminile è data da un vero alberello, sempre di abete, che ha il suo percorso ed il suo corteo separato e viene quindi legato alla cima.
Le azioni e gli strumenti usati nelle due piazze per alzare il maggio, sono pressoché identiche. Si predispongono funi da incrociare con pali di legno per sollevare gradualmente, e fissare ben diritto il tronco al centro della piazza. Tutti insieme nell’ultimo sforzo, uomini e giovani.
Il diametro massimo della pianta nei due casi oscilla fra 110 e 120 centimetri. L’ altezza può raggiungere dai 14 ai 22 metri a Pastena, nel Pollino raggiunge spesso i 25 metri.
Prima di mezzogiorno del primo maggio, a Pastena il matrimonio primaverile è compiuto. Il simbolo fallico si erge sulla piazza. Questa fusione tra maschile e femminile è finalmente possibile.
E’ un vero percorso evolutivo che coinvolge la comunità e i suoi protagonisti. Come in un rito di iniziazione per l’adolescente, che dopo la fase dei giochi e del divertimento (che contrassegnano le prime fasi del maggio fuori dalla cinta muraria ) entra insieme all’albero nella comunità degli adulti, pronto ormai al congiungimento con l’altro sesso. Nel Pollino un gruppo di bambini parallelamente al corteo della pianta si allena trascinando un piccolo alberello lungo il percorso. Sono i giovani, e sempre più numerosi, quelli che nei due riti esibiscono avanti al corteo la forza delle braccia.
In questo nuovo spazio de-limitato fra le mura, lo spirito del bosco e la comunità che lo venera ritrovano forma e quindi esistenza.
Ad Alessandria l'erezione inizia dal giorno due maggio con la pulitura e preparazione del tronco, che viene sfrondato e levigato a terra. Poi il giorno della festa di san Alessandro, l'albero e la cima sono innalzati nella piazza.
Nella stessa giornata che coincide con il 3 maggio anche a Pastena, i giovani tenteranno di salire su quell’albero della cuccagna, ma, anziché scivolare sul sangue del rito Achilpa ricordato da De Martino, essi troveranno grassi e oli con cui è stato unto per acuirne la difficoltà.
Subito dopo ad Alessandria l’albero viene scaraventato a terra e in pochi minuti la sua cima viene disintegrata dall’azione dei cittadini pronti a raccoglierne i pezzi, in cerca della buona fortuna. A Pastena invece il maggio resterà eretto tutta l’estate fino a settembre, quando il tronco verrà tagliato e distribuito a tutti gli abitanti come legna da ardere.
Certo, pur cogliendone i risvolti socio-culturali nella comunità odierna, e attenti a non farne una reperto solo da studiare o catalogare, non si può non interrogarsi sul perché di questi gesti, e sulla loro funzione che certamente è andata modificandosi nel corso del tempo.
L’analogia corre con le antiche celebrazioni primaverili dei Romani, che ai tempi delle guerre puniche, consigliati dai libri sibillini, introdussero nella penisola italica dalla Frigia, l’odierna Turchia, il culto di Cibele, la dea madre-terra, protettrice della fertilità e signora degli animali, cui veniva sacrificata una giovenca e quello di Attis, la cui anima infelice era custodita nel cipresso sacro. In tutto l'Estremo Oriente il pino sta a significare in genere immortalità, grazie all'incorruttibilità della sua resina e al suo fogliame sempreverde.
Ma tornando al discorso dal quale eravamo partiti, sui miti fondanti delle civiltà mediterranee, non si può non ricordare che proprio la storia narrata di questi popoli nasce con l'Iliade e la guerra di Troia, la distruzione di una città regale, da cui nascerà la polis greca.
Troia è stata espugnata per mezzo di un pezzo di legno, una macchina militare che richiama la natura animale (il cavallo ) ed il mondo vegetale (il legno, la pianta), che viene introdotta al centro della città come totem, per far festa, una festa orgiastica. Proprio in quella stessa terra dove nasce il culto di Attis e del pino sacro.
Come ha ricordato Giuseppe Cantarano, polemos diventa polis, la città mediterranea è fondata sul mito della guerra, e la radice semantica sta lì ad indicarlo.
Nel maggio di Pastena, come di Alessandria del Carretto, all’interno della città viene ritualmente riproposto il trasporto dell’albero, il simbolo del mondo vegetale, del bosco sacro, l’altra e antica opposizione alla città stessa. Lo spirito vegetale, come riferiva Frazer nel Ramo d'oro, torna a santificare il luogo centrale della nuova comunità.
Nella nuova città si aveva bisogno di ricordare il bosco sacro ma anche il nemico primordiale, che si esorcizza ritualmente al volgere della stagione feconda. Quel riportare a primavera dentro le mura “il nemico” è come ricordarne il riscatto.
Mi piace pensare che le genti di Pastena e di Alessandria del Carretto agiscano ad ogni primavera, non solo per le loro comunità, ma per un bisogno di pace. Pace che passa oggi necessariamente per una città nuova, dove intanto la democrazia e le opportunità per tutti siano garantite, dove la gestione del potere sia accessibile, trasparente, dove anche il diverso, la natura, gli animali, siano chiamati nel grande spazio sociale e vitale del “glo-local ”.