Note introduttive all’incontro pubblico su Partecipazione e democrazia: un binomio possibile? tenutosi a Salerno il 14 maggio 2005 a cura de “Il Gruppo dei Trenta. Associazione per la cittadinanza attiva”
Da quando il "Gruppo dei Trenta" – nato come occasione di aggregazione, discussione e proposta sulle metodologie e sui contenuti del nuovo PRG di Salerno e promotore di iniziative pubbliche e di documenti sui nodi irrisolti della questione urbanistica cittadina – si è trasformato in “Associazione di cittadinanza attiva”, si sono intensificati, nel giro di pochi mesi, momenti di approfondimento tematico affidati ai diversi gruppi di lavoro in cui essa si è articolata (cultura, urbanistica, attività produttive, turismo, servizi, cittadinanza politica) e si sono anche svolti incontri pubblici come quelli del 3 marzo sulla nuova legge urbanistica regionale e del 25 aprile sulla difesa della carta costituzionale. L’interesse e la partecipazione suscitati dalle iniziative promosse dall’Associazione sono stati abbastanza soddisfacenti, ma non certo esaltanti e se non siamo più trenta non siamo certo diventati 1000. Se siamo nati con l’intento di contribuire a riparare i guasti causati dalla oggettiva erosione dei luoghi e degli strumenti della democrazia nella nostra realtà nazionale e cittadina, l’abbiamo fatto ben sapendo che si trattava e si tratta di una impresa non facile e per la quale bisogna lavorare con lena e pazienza, anche consapevoli di dover scontare a lungo gli effetti della pigrizia, dell’opportunismo, della disaffezione verso la partecipazione, del sospetto verso le appartenenze non esplicite o plurali, di tutto ciò, insomma, di cui questa nostra città sembra da tempo soffrire, tra l’indifferenza dei molti e l’insofferenza di consistenti minoranze incapaci, però, di dare senso unitario e continuità alle critiche, alle analisi e alle concrete proposte di trasformazione.
Una tappa ulteriore di questo non facile cammino è l’approfondimento teorico e innanzitutto pratico-politico di una idea che oggi sempre più, sul piano dei contenuti filosofici giuridici e sociologici, ma anche e soprattutto su quello delle scelte e dei comportamenti politici quotidiani, è venuta imponendosi: la cittadinanza attiva. Intorno a questa idea si sono sviluppati apporti notevoli sul piano dell’elaborazione di nuovi concetti e nuove categorie della politica nel mondo contemporaneo, ma si sono anche creati modelli inediti di organizzazione dei cittadini in situazioni locali diverse e lontane (e che naturalmente non riguardano soltanto l’Italia). E’ necessario, però, acquisire una consapevolezza critica – che è anche informazione, conoscenza, capacità di giudizio storico ed etico – del concetto di cittadinanza, il quale non deve diventare un magico passepartout buono per ogni situazione e per ogni latitudine storico-culturale o uno slogan da sbandierare con innocente retorica o, peggio ancora, con colpevole intenzione propagandistica. La cittadinanza attiva non si coltiva soltanto sul piano del dibattito concettuale e della pur necessaria chiarezza teorica. Essa deve diventare pratica di vita quotidiana, educazione permanente ai valori civili riconosciuti e condivisi nel continuo intercambio tra il patto costituzionale fondativo e l’insieme delle tradizioni e delle specificità umane e culturali della comunità cittadina. Essa deve trasformarsi da passiva attribuzione di qualificazioni giuridiche in attiva costruzione di momenti partecipativi (e non sostitutivi rispetto alle istituzioni rappresentative) al governo della città. Così come non basta aver letto e assimilato Montesquieu e Toqueville per agire democraticamente e per testimoniare una pratica democratica, allo stesso modo non basta aver letto le analisi contemporanee di Marshall o di Dahrendorf per ritenersi automaticamente capaci di esprimere livelli di pratica della cittadinanza attiva. Per essere più concreti, con l’idea di cittadinanza attiva, si tratta – sia pur senza cadere in astratti schematismi – di costruire nella determinatezza di situazioni storico-sociali e culturali di ogni città e di ogni dimensione urbana le occasioni di una pratica effettività dell’insieme dei diritti dei quali è titolare ogni appartenente alla comunità. Qui occorre un chiarimento. Spesso i diritti di cittadinanza sono stati individuati e definiti in una sorta di terza generazione dei diritti, che verrebbe dopo i diritti politici e quelli sociali. Si fa cioè riferimento ai diritti all’informazione, alla comunicazione, al tempo libero, all’ambiente, alla gestione del proprio corpo, del proprio patrimonio genetico e di quello di chi verrà dopo di noi. E’ indubbio che si tratta di ambiti spesso inediti della vita e dei bisogni delle donne e degli uomini contemporanei. Ma guai a considerare, antistoricamente, la sequenza tra le tre generazioni di diritti in una prospettiva evolutiva, dando cioè per scontata l’acquisizione erga omnes dei diritti politici e sociali. Basterebbe gettare uno sguardo sul mondo, tanto globale quanto locale, per rendersi conto di come possa sembrare drammaticamente sarcastico invocare diritti di cittadinanza là dove si soffre la mancanza degli altri elementari diritti alla dignità e alla sopravvivenza. Si potrebbe tuttavia individuare nella cittadinanza attiva l’elemento chiave di giuntura tra le varie articolazioni dei diritti, una volta però che la si intenda – come noi la intendiamo – come reale riconquista della partecipazione politica nel suo senso, però, più ampio e comprensivo, nel significato, cioè, originariamente aristotelico del governo della polis e non, dunque, come mero esercizio del diritto al voto. Ha scritto bene Lillo D’Agostino (Il lutto della politica globale, in “L’Articolo” del 27 febbraio 2005): questo tipo di partecipazione non è «espressa semplicemente dal voto e, in quanto tale, sovente non è stata “regolata” e forse non è del tutto “regolabile”, poiché è, in primo luogo, manifestazione di una volontà collettiva che a lungo può tacere, o fatta tacere, ma che ciclicamente torna a soffiare sul territorio, in particolare, della politica e dell’amministrazione».
In molte città italiane grandi e medie sono fiorite, negli ultimi anni, associazioni di cittadinanza attiva, una vera e propria rete di nuove soggettività politiche della società civile, che non vuole essere gestazione di antipolitica qualunquista, ma reale riproduzione di quella naturale politicità che appartiene a tutti i cittadini, purché riscoprano la voglia della discussione, della conoscenza, della proposizione di atti e comportamenti che nascano dalla rinnovata voglia di stare insieme e di pensare in comune, anche dividendosi e confrontandosi. E’ palpabile la stanchezza che in molti proviamo verso quella stucchevole lezione di realismo della governance che periodicamente ci viene propinata da destra come da sinistra, secondo la quale per governare la complessità della nostra epoca sarebbe indispensabile delegare a pochi saggi le scelte programmatiche e le decisioni amministrative. In realtà ciò che emerge sempre più è la tendenza in atto di ridurre gli spazi della partecipazione democratica, di confinare le decisioni pubbliche nelle angustie delle oligarchie e dei partiti personali.
L’iniziativa pubblica che qui presentiamo ha questo obiettivo: un confronto di esperienze e di percorsi propositivi con associazioni di cittadinanza attiva di altre realtà urbane (di Bari, Bologna e Roma) che già prima di noi hanno sentito la medesima esigenza di organizzare un luogo di partecipazione democratica, di individuare uno spazio aperto alla circolazione delle informazioni, alla discussione tra i cittadini, al confronto fra le idee. Mi piace segnalare una significativa analogia tra i modi della genesi del nostro “Gruppo dei Trenta” e quelli di associazioni di cittadinanza attiva come “Città Plurale” di Bari e “La Compagnia dei Celestini di Bologna”. Tutti e tre questi movimenti sono nati a partire dal bisogno di intervenire su questioni concernenti l’organizzazione urbanistica del territorio. A Bari “Città Plurale” ha iniziato il suo percorso lanciando un appello alla città per la salvaguardia di Punta Perotti. A Bologna l’associazione dei Celestini è nata da discussioni sull’urbanistica. Consentitemi di citare l’esordio del Manifesto dei Celestini (pubblicato nel maggio del 2002), giacché esso serve a chiarire il senso di una interesse originario che ha contraddistinto il nostro gruppo e che – perché non dirlo – ha provocato molte discussioni al nostro interno e non pochi pretestuosi sospetti all’esterno. «Ci siamo conosciuti – si legge nel Manifesto – discutendo di urbanistica, cioè della disciplina che studia l’organizzazione della città e del territorio per pianificarne il futuro; una cultura di interesse collettivo, orientata a garantire che lo sviluppo della città non si trasformi in vantaggio per pochi a danno di molti. Ci unisce la convinzione che la città e il territorio siano un patrimonio comune, in cui i beni essenziali petr la qualità della vita non possono risultare dalla somma di interessi particolari, ma solo da una consapevole assunzione di responsabilità pubblica. Se gli interessi particolari di ciascun cittadino costituiscono l’elemento dinamico della città e di un territorio essi devono essere anche finalizzati al “bene comune”:si tratta quindi di premiare quelli virtuosi e di penalizzare quelli viziosi».
Che la città di oggi, la “città globale”, come l’ ha definita ancora di recente Zygmunt Baumann, stia attraversando una inedita fase storica che fa di essa l’asse focale delle trasformazioni culturali, psicologiche, sociali ed economiche del XXI secolo, è ormai dato incontrovertibile. Non mi sentirei di sposare tutte le analisi del grande sociologo anglo-polacco, specialmente quelle pervase da una eccessiva dose di catastrofismo. E, tuttavia, non si può non convenire sul fatto che oggi la città postmoderna rappresenta il luogo di una contraddizione strategica di fondo: quella della concentrazione in essa delle funzioni più avanzate del capitalismo finanziario e telematico e della contemporanea presenza in essa di una spaccatura sempre più radicale tra la città della sicurezza e della ricchezza (dominata anche visivamente dai simboli della difesa dalla paura: guardie private, sistemi elettronici, recinzioni e inferriate) e la città invivibile dell’insicurezza economica, del disagio, della violenza, delle nuove e vecchie povertà. Non solo, ma, come osserva ancora Baumann (Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano, 2005, pp.19 e ss.) «le città sono diventate delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione» (forse Baumann non immagina quanto corposa possa essere per noi abitanti delle città campane la sua metafora). E, tuttavia, il riferimento a Baumann consente di individuare un ragionevole e plausibile modello.al tempo stesso teorico e pratico, di politica della cittadinanza attiva. La sua applicabilità non è certo facile (come non è facile ogni passaggio possibile dalla paura alla fiducia), giacché si tratta dell’arduo compito di «trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali». Eppure, anche se ormai la politica locale appare sempre più «sovraccarica» di quei problemi che su essa scarica l’inadeguata politica di fronteggiamento degli effetti della globalizzazione, non si può non ripartire dai «luoghi» della cittadinanza, dai luoghi in cui si forma e si consolida l’esperienza del vivere condiviso, in cui questa esperienza viene elaborata e trasformata in norme comuni e sempre negoziabili nell’interesse generale della collettività, dai luoghi infine dell’incontro con gli altri, con i diversi, con lo straniero immigrato, dai luoghi dove finalmente prevalga la mixofilia sulla mixofobia. Ha ragione Franco Cassano quando dice che anche i grandi problemi dell’economia globale, della pace e della guerra, delle ragioni di scambio e delle nuove oppressioni sociali, possono e debbono passare per le piccole realtà locali. Non certo per ricadere in improponibili municipalismi egoistici (o peggio ancora in faide e rivalità tra comunità e territori che dietro la napoletanità o salernitanità o baresità nascondono vecchi e nuovi rancori tra contrapposti interessi oligarchici), ma per riconquistare il gusto di un lavoro comune, di uno scambio continuo di esperienze e di analisi, di lotte e di proposte. «L’azione collettiva è lo strumento che rende la democrazia una cosa viva, che crea risorse nuove e allarga il futuro, combatte la depressione, la convinzione che non c’è niente da fare, la convinzione amata da tutti i poteri forti. I partiti non devono temere questa dinamica, anzi dovrebbero vederla come ossigeno che li rivitalizza, che li fa tornare per strada, alle ragioni che intrecciano politica e passione» (F. CASSANO, La nottata siamo noi, cito dal sito www.cittàplurale.it).
Non intendiamo, sia chiaro, farci promotori di nessun appello retorico alle “virtù civiche” di chissà quali incontaminate comunità locali o alla genuinità rivoluzionaria di una introvabile società civile. Vorremmo invece contribuire alla formazione e diffusione di associazioni plurali di cittadini impegnati a riappriopriarsi della loro vita sociale, culturale e politica. Dalla crisi della politica non si esce né con nostalgiche operazioni di restauro di passate formazioni politiche, né con fughe verso astratti modelli assembleari, ma restituendo ad essa il suo originario valore di ricerca comune del bene collettivo.
Tutto questo lo abbiamo affidato – come una promessa che aspetta però di essere non solo adempiuta ma a lungo mantenuta – all’art.3 del nostro Statuto, là dove si dice che l’Associazione si propone come «gruppo di aggregazione di cittadini che vogliono interessarsi dei problemi del territorio salernitano, offrendo il proprio contributo alla definizione di indirizzi, progetti e azioni finalizzate a migliorare la qualità e le prospettive di vita, intervenendo in problematiche che investono la storia, la cultura, l’assetto territoriale, il destino economico e sociale della città di Salerno e della sua provincia nel contesto regionale e nazionale. Il tutto con la consapevolezza che la città, e la qualità della vita al suo interno, sono beni comuni da preservare con costante e partecipata assunzione di responsabilità pubblica da parte dei cittadini, per contribuire a rendere la città più vivibile, bella, solidale, libera e democratica».
Il nostro – lo ripeto – è un compito difficile, difficile perché deve attraversare un deserto, quello provocato dalla crisi della politica tradizionale (alla quale palliativi generosi o soluzioni artificiose desunte da riforme elettorali pasticciate, da regimi populistici più o meno autoritari, da controriforme costituzionali gravissime, da movimenti di opposizione nella società e nell’opinione pubblica slegati e privi di continuità, non riescono a dare soluzioni salde e convincenti), quello provocato dal dilagare, nella nostra come in tante altre città, degli opportunismi, dei comitati di supporto a questo o a quell’altro leader locale. Ma proprio per questo pensiamo ad una cittadinanza attiva che sappia parlare senza veli, senza paure verso i potenti e i padroni della politica, e sappia rappresentare – come ancora ha scritto D’Agostino – l’esigenza dei cittadini di partecipare, di dire la loro, «senza limiti alla propria autonomia e libertà di giudizio, su quanto avviene e si programma nella polis, nel paese e nelle sue diverse articolazioni e realtà». Insomma, una partecipazione diffusa «che ponga fine a quello che Morin avrebbe potuto definire una “scuola del lutto”:il lutto della politica». E’ lo spazio pubblico della democrazia che – sia pur dal nostro modesto angolo di visione e di azione – vorremmo contribuire a difendere, ad allargare, talvolta addirittura a creare. Oggi la politica, più di ieri, è diventata appannaggio di professionisti, di persone che sanno creare, dentro e fuori degli apparati di partito, lobbies e comitati, che sanno maneggiare e utilizzare risorse finanziarie inaudite per le proprie campagne elettorali. Ma tutto questo non deve certo indurci a rinnegare l’innata politicità che appartiene solo all’essere umano. Ed allora quello spazio pubblico della democrazia che vogliamo tenacemente conquistare e preservare non può riguardare solo la politica delle istituzioni e per le istituzioni, ma deve muovere dalla consapevolezza «che vi sono alcuni beni, i beni cosiddetti pubblici, dall’ambiente alla legalità, all’istruzione, alla salute, al diritto alla bellezza, che corrono il rischio di scomparire a seguito dell’inerzia e sotto l’attacco delle speculazioni private.Noi vogliamo semplicemente offrire a tutti la possibilità di esserci, di contare, vogliamo che quei beni, che appartengono a tutti, siano tutelati, vogliamo fare incontrare competenze, intelligenze e democrazia» (CASSANO, cit.). Ho detto prima che la politicità appartiene solo all’essere umano, ma questa appartenenza è – come osserva giustamente Baumann – intimamente legata ad una appartenenza che viene ancora prima e che è quella della solidarietà e dell’assistenza reciproca. Racconta Baumann di un suo vecchio professore di antropologia che spiegava l’origine della società umana partendo dal ritrovamento di uno scheletro di una creatura invalida con una gamba spezzata.Ma l’incidente come rivelarono le analisi era avvenuto in età infantile. Significa che qualcuno si era preso cura di lui e non era stato abbandonato alle fiere. «La preoccupazione odierna è tutta qui: portare questa compassione e questa sollecitudine sul piano planetario. So che le generazioni precedenti hanno affrontato questo compito, ma voi dovrete proseguire su questa strada, vi piaccia o no, cominciando dalla vostra casa, dalla vostra città, adesso. Non riesco a pensare a niente che sia più importante di questo. E’ da qui che si deve cominciare» (BAUMANN, cit., p.79).