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Piero Bevilacqua

Prometeo e l’Aquila.
Dialogo sul dono del fuoco e i suoi dilemmi,
Donzelli, Roma 2005


di Rita Benigno


Un dialogo serrato e profondamente straniante sui problemi – ma sarebbe meglio dire, sui “mali” – che affliggono la nostra società, attraverso la rivisitazione del mito di Prometeo: è quanto ci propone Piero Bevilacqua nel suo ultimo libro, Prometeo e l’Aquila, che come dice lo stesso sottotitolo è un discorso a due voci sul dono del fuoco e i suoi dilemmi.
Un discorso difficile, quello di Piero Bevilacqua: vi parlano la scienza e la natura, il passato ed il presente, la storia e la leggenda. Un tema intricato, in cui il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il buono ed il cattivo non sono immediatamente ed assolutamente distinguibili; ma che l’autore affronta senza esitazioni, “prendendo parte”, seguendo i suggerimenti della propria sensibilità intellettuale ed umana. Il risultato è stringente, drammatico, ma profondamente toccante: mette a nudo tutte le angosce, le contraddizioni, le minacce che assillano questa nostra umanità dolente.
Prometeo, il cui nome significa "Colui che è capace di prevedere" (figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene), aveva rubato il fuoco dall’Olimpo per donarlo agli uomini e, per punizione, fu fatto inchiodare da Zeus ad una rupe del Caucaso, ove un'aquila durante il giorno gli rodeva il fegato con il suo becco aguzzo mentre durante la notte si rigenerava magicamente. Ma l’Aquila di Piero Bevilacqua, che giunge sulla rupe dove è incatenato il Gigante all’alba di una nuova primavera, non è lo stesso rapace che quotidianamente gli infliggeva il tremendo supplizio: è un essere misterioso, che non si rivela, ma che asserisce di avere sapienza del passato e di saper osservare il presente. Ed è su questi temi che l’enigmatica creatura, prodigiosamente dotata di parola, invita Prometeo a discutere. E’come se – terminato il supplizio di Zeus – fosse la sua stessa e più intima coscienza a presentarsi al suo cospetto, per instillargli dubbi ed incertezze; come se quell’aquila fosse il suo rovescio, materializzatosi davanti ai suoi occhi per fargli vedere ed udire l’altra faccia della medaglia, il prezzo pagato dagli uomini alla tecnologia ed al progresso.
Prometeo, infatti, è il mito che simboleggia la trasformazione tecnologica operata dall’uomo sulla natura, attraverso un processo di artificializzazione la cui deriva è rappresentata da una lenta, ma progressiva, distruzione dello stesso habitat naturale. Egli è anche “colui che dona”: attraverso il dono del fuoco, simbolo dell’energia che ha reso possibile la sopravvivenza dell’homo faber, diventa donatore di vita. Un dono che – ed è proprio l’Aquila a rammentarcelo – porta però con sé il germe della morte: «L’avidità degli Umani ha consegnato il valore di tutte le Creature-che-stanno-sotto-il-Sole alle monete, alle pietre-morte-che-giacevano-sotto-la-Terra [... ] all’Ordine-delle-cose-morte, Prometeo, è consegnato l’Ordine-dei-Viventi. L’anima di ogni Creatura appartiene al Demonio che gli Umani hanno richiamato dal buio della Terra. Ora è lui, questo Signore-degli-Inferi, che possiede tutti i beni illuminati dal Sole». Nel passaggio dall’homo faber all’homo tecnologicus si consuma il dramma dell’umanità: la tecnica diventa il suo destino e, per dirla con Heidegger, nell’insignorirsi del suo mondo prepara la sua ultima deriva.
E’ il problema del nostro tempo, che si presenta in tutta la sua drammatica crudeltà: la realtà del Capitale che genera sempre più disuguaglianza e povertà, la tecnoscienza come mezzo per assoggettare la natura e metterla al servizio dei Potenti, una ricchezza di pochi che genera morte e guerra per i più. Una guerra sempre più tecnologica e, quindi, più spietata, che stermina popolazioni inermi e rade al suolo interi territori: «La guerra, Prometeo, è l’enigma più oscuro che grava sulla Terra». Nella storia di Piero Bevilacqua è un’aquila a raccontarci queste cose: un mito nel mito. Uccello solare, rappresentante del fuoco e del sole, dell'altezza e delle profondità dell'aria e della luce, l’aquila sembra essere messaggera della vita – della natura ferita: non è un caso (non può esserlo) che la sua ala sia sporca di sangue. Soltanto la Fortuna, l’alea, l’ha portata a sostare lì, su quella rupe. Ma anche la Fortuna è “colei che dona: come dire che, al dono avvelenato di Prometeo si contrappone il dono generativo di una possibile “ri-nascita”. Ma è un dono che non è scontato, né sicuro: vi si contrappone proprio l’ombra, una creatura spaventosa che forse è dentro il cuore di Prometeo. Qui il racconto si fa drammatico: parla rabbioso di catene, morte, distruzione, fine dell’umanità. «Ogni cosa corre verso la fine, – sghignazza l’ombra – precipita nel pozzo della morte. Resiste solo il tempo, meschino mortale. Il grande fiume che tutto spazza. Soltanto il tempo è signore. E il tempo non esiste. Il tempo non esiste. Il tempo non esiste»: l’urlo di Prometeo, dopo queste ultime parole, rivela l’oscuro tormento che attanaglia gli uomini.
Il dono dell’aquila – la speranza – sarà allora possibile soltanto attraverso l’assunzione della Responsabilità. E’ il rapace stesso a rappresentarla: Jung ha visto in esso un simbolo paterno che, proprio per questo, richiama non soltanto la classica autorità, ma anche la responsabilità del “buon padre di famiglia”. Gli uomini, ormai privi dell’alibi dell’ignoranza, sono chiamati a farsi carico dei problemi del pianeta. Se ciò non avverrà, l’annuncio della Liberazione di Prometeo – se si vuole, la profezìa della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del lavoro per mezzo dei prodigi della tecnica – sarà soltanto un’illusione distruttiva ed ingannevole.
Fra mito, immaginazione e sogno, ad essere in gioco è il destino dell’umanità.



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