L’attacco al Pollino era già iniziato. L’enorme elettrodotto era “passato” senza intoppi, niente a
che vedere con le proteste che stanno interessando, per lo stesso motivo, le aree abitate poco
lontane. Ora, dopo le vicende dei soldi non spesi e mal spesi, si apre anche il fronte meridionale. Il
Santuario di S. Maria delle Armi, con le sue architetture armonizzate con il paesaggio roccioso e
arido del Pollino sud-orientale, diventa un centro informazioni per i turisti, con relativa nuova
struttura (non c’è sviluppo senza cemento…). Ma, soprattutto, si dà l’assalto alla parte più integra
del massiccio: i contrafforti rocciosi del versante sud. Iniziano, infatti, con la strada Frascineto-
Monte Moschereto, le strade di penetrazione in quella zona che, per la particolare morfologia, si è
conservata quasi intatta fino ad oggi. Chiunque percorra l’autostrada verso nord, non avrà potuto
fare a meno di notare il paesaggio magnifico offerto da quelle montagne. Nessuna amministrazione
ha sinora tentato di attaccare anche quei versanti rocciosi, più che per una particolare sensibilità
ambientale, per mancanza di reale convenienza economica. Questo, fino alla istituzione del Parco
Nazionale del Pollino, strano ente che nasce difettoso fin dalla legge quadro sui parchi, che al sud
poco o nulla tutela e che, anzi, a quanto pare, desta appetiti in aree dimenticate e, solo in quanto tali,
scampate allo scempio. Il tutto in barba anche alla Rete ecologica nazionale, di cui, ovviamente, le
aree interessate dagli “interventi” fanno parte.
Ma ciò che è più grave della distruzione stessa, è l’attenzione dell’opinione pubblica al
problema. Opinione pubblica che, in questa materia, significa soprattutto associazioni ambientaliste.
Purtroppo, però, la funzione principale delle associazioni ambientaliste (e non solo) sta venendo
meno.
Ciò richiede una breve riflessione, che risulta dolorosa e non priva di ingratitudine per chi scrive.
Le associazioni nascevano come movimento di protesta, per la difesa dell’ambiente e con
obiettivi precisi e drastici come l’abolizione della caccia o del nucleare. Grandi successi e grandi
sconfitte, talvolta con qualche punta di ingenuità e qualche deficienza tecnica e scientifica, ma
sicuramente un ruolo permanente e significativo.
Oggi le associazioni ambientaliste sono altro. La protesta si è stemperata in moderatismo,
tecnicismo e arrivismo. D’altra parte, la protesta è tornata ad essere per molti “una cosa sporca”,
nemica del quieto vivere, bollata da una persistente campagna di comunicazione nazionale come
una patologia psichica che si esplica nelle piazze. Ecco, quindi, che l’ambientalista arrabbiato e un
po’ piagnone del passato non esiste quasi più, sostituito da abili personaggi che si caricano di
pseudo-saperi scientifici e interloquiscono con le amministrazioni, con vari ruoli, fino a far parte
degli organi gestionali delle stesse. Per catalizzare il meccanismo, meglio ancora dosare la protesta
nei luoghi, nei modi e nei tempi opportuni, per poi lasciare svanire opportunamente il tutto. Non più
prese di posizione, né vigilanza e denuncia sulle emergenze locali e neppure referendum abrogativi.
Così, nel dibattito ambientalista, il dilagare degli impianti eolici sulle nostre montagne
(consacrati dallo slogan delle energie pulite) si caratterizza per i punti di vista variabili dall’aperto
sostegno al dichiarato possibilismo.
Così, mentre i parchi del sud assomigliano ormai a comunità montane, la gestione dei parchi
diventa un problema gastronomico (“la valorizzazione dei prodotti tipici”). La rete ecologica
diventa un insieme di “infrastrutture per i turisti” e la battaglia contro la caccia (che per fortuna sta
morendo da sola) si trasforma in una più tenue “campagna contro la caccia indiscriminata” (cosa
vuol dire? forse campagna a favore della caccia ingiustamente discriminata?).
Contemporaneamente, mentre aleggia una proposta di legge pazzesca e un po’ infantile sulla caccia,
le associazioni ambientaliste diventano partner di quelle venatorie (più ricche) in nome della
“caccia sostenibile”. Nello stesso contesto, la fauna ritorna ad essere “selvaggina” evidenziando,
oltre ad un cambio di rotta di molti gradi, anche la pochezza culturale di molti fra gli attori
attualmente impegnati nella vicenda.
Tutto si spiega e tutto si scusa in nome dello slogan salva-ambientalisti che è diventato il
paradigma della conservazione: lo sviluppo sostenibile, slogan iper-abusato, al punto da essere già
stato rimpiazzato con un più vago e meno quantificabile sviluppo durevole. Non più fronti opposti,
quindi, fra distruttori e conservatori, ma “proficua” collaborazione per l’integrazione di tutto con
tutto. Proprio di tutto, se si trova modo di ritenere sostenibile anche l’attuale gestione della cosa
pubblica in materia di ambiente, che sembra ignorare, oltre al valore intrinseco della qualità
dell’ambiente (sarebbe davvero chiedere troppo ad un esecutivo di odontoiatri e laureati a suon di
dieci esami in dieci mesi), anche il bene economico costituito dal nostro patrimonio paesaggistico e
artistico. Un patrimonio che, venendo meno il progresso tecnologico e la ricerca, resta l’unico bene
non riproducibile a costi inferiori nei paesi emergenti e unica nostra valida prospettiva di benessere.
Intanto, gli ecosistemi continuano a funzionare con gli stessi delicati meccanismi naturali, che
non si modificano in conseguenza di slogan o di leggi e azioni più o meno approssimative.
Per di più, il personale stipendiato dalle associazioni lancia l’appello al volontariato, alla
passione, alla dedizione incondizionata dei soci, necessari all’associazione quanto spesso
inconsapevoli del meccanismo di cui sono parte. Se l’appello è reiterato ed incalzante, non si può
che leggere, oltre ad un comprensibile timore dei diretti interessati (il lavoro è oggi un problema per
molti), anche una strategia comunicativa precisa dell’associazione. Precisa, ma grossolana, con
punte di goffaggine e cadute di stile, come quando i soci sono diventati in prima pagina
(incredibilmente a firma di un illustre presidente ed uomo di scienza, poi ovviamente defilatosi)
“gente” dell’associazione e sono classificati in opportune “categorie”.
Il quadro che ne emerge è grave. L’associazione, chiaramente, è libera se non dipende dai
soggetti su cui dovrebbe porre la propria attenzione. L’associazione che collabora a vasta scala con
enti e istituzioni instaura una dipendenza da essi. L’associazione che si dota di una struttura
permanente magari efficiente ma dispendiosa non riesce ad autofinanziarsi e deve difendere se
stessa prima ancora che l’ambiente. Quindi non è libera.