Per un figlio è difficile scrivere del proprio padre senza incorrere nella retorica e
nell’autocelebrazione.
Cesare Curcio fu un comunista.
Quando pronuncio questa parola ho come l’impressione che da questo rigo in poi le persone che
continuano a leggere siano poche. Come se la Storia dei comunisti fosse una storia marginale e solo
di una parte politica, che riguarda “loro” e non il resto dei cittadini.
La microstoria che voglio raccontare per ricordare mio padre, invece, riguarda tutti. Riguarda il
sentimento di democrazia di un popolo e di una città. Riguarda sorpattutto la fine vera del fascismo,
non quella delle date sui libri di storia, ma quella che si legge nel sentimento della gente, nel sentire
di una comunità.
Nelle righe del racconto che segue, ricostruito a fatica attraverso i ricordi diretti dei protagonisti
ancora in vita, vorrei riuscire a comunicare non solo un pezzo di Storia di una parte politica. Vorrei
che la celebrazione dei 100 anni dalla nascita di Cesare Curcio sia ricordata da tutti quelli che
amano la democrazia e la libertà.
L’immediato dopoguerra è un periodo colmo di conflitti certamente laceranti e che hanno diviso
profondamente gli animi e le coscienze. Credo sia necessario guardare con distacco a questi eventi
che sono, nel bene e nel male, alla base del nostro senso civico e che hanno costituito le fondamenta
della nostra democrazia.
La storia comincia alla fine di settembre del 1944 a Camigliatello, in Sila, quando gli americani con
le loro enormi macchine “affettavano” o sradicavano i nostri grandi pini per prenderseli come
bottino di guerra.
Il Nord Italia era in guerra. Cassino era caduta da qualche mese e le armate tedesche si attestavano
sulla linea gotica dell’Appennino tosco emiliano. L’Italia liberata era governata dal governo
Bonomi formato dai rappresentanti di tutti i partiti, comunisti compresi. In quel Governo c’erano
due ministri cosentini, Fausto Gullo e Pietro Mancini.
Un gruppo di 14 operai forestali della Presila, che lavoravano per gli americani nei cantieri forestali
di Camigliatello, chiese degli impermeabili per proteggersi dalle intemperie. A quel tempo la guerra
aveva completamente impoverito quei lavoratori e anche l’acquisto di un impermeabile era
proibitivo. Gli americani promisero la fornitura di questi indumenti, ma il tempo passava, il freddo e
la pioggia della Sila non davano tregua e le promesse non riscaldano. I 14 uomini decisero
spontaneamente di non recarsi al lavoro, per protesta. Ne discussero tra loro in uno dei vagoni di
quei lunghi treni che portavano questi lavoratori dai paesini della Presila fino in Sila .
Non tennero conto delle possibili conseguenze per quella che era, forse, una delle prime proteste
operaie dell’Italia liberata. Lo sciopero non era ancora contemplato come un diritto e nemmeno la
protesta.
Gli operai vennero quasi tutti individuati dai soldati americani nelle vie di Camigliatello e della
vicina Moccone e costretti a salire su una loro camionetta. Li arrestarono tutti, tranne due. Furono
rinchiusi in un seminterrato di una baracca di legno che fungeva da caserma dei carabinieri. La
sorveglianza non era stretta tanto che togliendo le tavole di legno male inchiodate potevano uscire
durante la notte senza chiedere permesso. Ma non fuggirono, si fidavano.
La mattina successiva gli operai furono interrogati brevemente dal Comando Alleato e, subito dopo,
nella stessa mattinata furono trasportati nel carcere di Colle Triglio a Cosenza.
Lì rimasero un mese in attesa del processo. Sotto le finestre del carcere ci furono delle
manifestazioni per protestare contro questi arresti ingiustificati che tradivano lo spirito del tempo e
contraddicevano il percorso che si era avviato per portare l’Italia verso un regime democratico.
Il 30 ottobre del 1944 si tenne il processo. Luigi Gullo difese gli operai con un’arringa memorabile.
Ma a nulla valse. Il giudice condannò quegli operai.
Mio padre era un semplice spettatore. Nell’udire la sentenza ebbe un moto di rabbia e, mentre il
pubblico abbandonava l’aula del processo, ad alta voce disse:
“Questa Corte è ancora fascista, operai che protestano per i loro diritti non possono essere
condannati”
All’udire questa frase il giudice gridò verso il pubblico: “Chi è stato a parlare”.
Mio padre, spontaneamente, alzò subito la mano e avvicinandosi alla Corte disse: ”Sono stato io”.
Quel giudice incrociò lo sguardo di mio padre e lo riconobbe.
Uno degli operai arrestati, allora diciassettenne, colse il dialogo tra i due.
“Ancora tu” disse il magistrato,
Mio padre annuì e mostrò sprezzante le cicatrici sulle sue dita che gli erano rimaste a ricordo delle
torture subite nel maggio del 1932.
Quel giudice, probabilmente, era lo stesso magistrasto (forse il Procuratore del Regno - attuale
Pubblico Ministero) che faceva parte della Commissione per il Confino e che giudicò mio padre
insieme con altri 70 antifascisti dopo che alcuni di loro furono torturati.
Per quella condanna mio padre perse il suo lavoro di meccanico della sua officina per camion.
Nel 1933 insieme a mio padre furono torturati nello stesso momento Gennaro Sarcone e Francesco
Sicilia di Rogliano, Antonio Sicoli di Celico, Aladino Burza di Cosenza e Eduardo Zumpano di
Spezzano Piccolo (vi furono altri torturati, ma di questi non si hanno fonti certe ma solo racconti
tramandati oralmente). Scudisci, bracieri ardenti, tenaglie, e ganci sul soffitto erano gli strumenti
delle torture oltre alle privazioni dei bisogni elementari come quelle del sonno e dell’acqua.
Estorsero loro, dopo dieci giorni di durissimi supplizi, gli altri nomi. I fascisti vollero sapere dove
erano nascosti il materiale propagandistico, una bandiera rossa, un ciclostile, le macchine da
scrivere, i libri, insomma, in due parole, le loro idee.
Il giudice si sentì offeso e oltraggiato, ma tentennò ad iniziare un processo per direttissima. Luigi
Gullo intervenne nel dialogo tra mio padre e il giudice e riuscì a convincere il magistrato a rinviare
il processo al giorno dopo.
Ma di nuovo intervenne mio padre: “Adesso voglio essere giudicato, subito”, disse.
E così avvenne. Fu condannato per direttissima a ben un anno di reclusione.
La notizia si diffuse immediatamente. Le littorine che da Cosenza tornavano in Presila portavano la
notizia. C’era incredulità.
Un mio parente, vicino di casa, fu visto piangere disperato perché toccava a lui portare la notizia ai
genitori di quell’unico figlio, e a quella povera e numerosa famiglia (oltre ai genitori Cesare Curcio
viveva insieme ad una zia e a cinque cugini) tormentata dal fascismo e in quei giorni felice di poter
professare in libertà le proprie idee politiche.
Poi la rabbia montò. Era una piovosa e fredda giornata d’autunno, nel tardo pomeriggio, quando
tutti tornarono dal lavoro, ebbero appena il tempo di passarsi la voce. Tutti a Cosenza davanti a
Colle Triglio.
Di notte, sotto la pioggia, avvolti da scuri mantelli neri, al canto cupo di “Fischia il Vento”, la
canzone dei partigiani, con in testa le bandiere rosse dei rinati partiti, migliaia di persone scesero a
piedi fino in città da ogni paese della Presila, e si unirono alle migliaia di persone che erano già a
Cosenza provenienti dal resto dell’Interland e dalla città.
Testimoni oculari ricordano che la piazza antistante l’allora Palazzo di Giustizia di Colle Triglio era
piena di gente anche Corso Plebiscito e le due strade laterali che discendono dal Colle erano colme.
Cosenza non aveva mai visto prima di allora una manifestazione spontanea così grande.
La gente premeva alle porte del carcere. Volevano liberarlo. Mio padre all’interno della cella si rese
conto della gravità della situazione. Udiva le grida e aveva capito che i militari di guardia si
preparavano a ricevere quella folla con le armi spianate. Gridò a sua volta all’indirizzo della
direzione del carcere. “Fatemi parlare con loro, li calmo io” gridò molte volte. Alla fine lo
accontentarono e poté parlare.
L’On. Gino Picciotto, suo compagno di partito, ricorda lucidamente quest’episodio che riportò su
un giornale dell’epoca al momento della sua morte.
Mio padre disse a tutti un’amara bugia: “Tornate a casa, non vi preoccupate tanto domani mi
liberano”. Obbedirono e solo così Cosenza non ebbe bisogno di ricordare quella notte. Non ci
furono morti, né feriti.
Cesare Curcio scontò, invece, otto mesi di galera. Tanti quanti ne scontò al confino di Ponza, ma
quello non era un atto persecutorio, era una vacanza, come ha detto qualche tempo fa il Presidente
del Consiglio, Silvio Berlusconi.
Il carcere fascista invece lo aveva vissuto altre sei volte prima di allora:
1. 8 giorni nel 1926 (nel carcere di Spezzano Sila) per attività clandestina, fu arrestato insieme
a Fausto Gullo, Luigi Prato e altri; questi ultimi inviati anch’essi in villeggiatura a Nuoro;
2. 32 giorni nel 1928 (nelle carceri di Cosenza) per aver distribuito stampa clandestina;
3. 8 giorni nel 1930 (sempre a Colle Triglio) perché si sposava il Principe Umberto (grazie
Sire, ce ne ricorderemo);
4. 60 giorni nel 1932 (prima di essere inviato al confino) compreso anche un periodo di
convalescenza passata in ospedale per guarire dalle ferite;
5. 3 mesi nel 1936 (forse nel carcere di Poggioreale a Napoli) per aver presenziato una
riunione clandestina di contadini che in seguito fecero, come lui stesso ricorda, “la più
grande manifestazione sotto il Fascismo per l’occupazione delle terre”;
6. 42 giorni nel 1938, perché erano apparse delle scritte su alcuni muri di Serrapedace
(“Abbasso il Fascismo” e falce e martello) e fu ritenuto il mandante, condannato per
“sospetto di rottura d’Ammonizione”.
Se si sommano tutti i periodi di carcere non si arriva ad otto mesi. L’antifascista Cesare Curcio per
aver commesso il reato di manifestare le proprie idee, passò più tempo nelle galere del neonato stato
democratico che non sotto il fascismo.
Il giorno successivo, primo novembre del 1944, si riunì il Comitato di Liberazione Nazionale e
protestò formalmente per gli arresti di quegli operai e per quello di mio padre, fu indetta anche una
manifestazione dentro ad un cinema per il giorno successivo, ma a nulla valse . Probabilmente (non
si hanno notizie certe al riguardo) in quella occasione le due anime del PCI si scontrarono
duramente: l’anima rivoluzionaria e ribellista (con alla testa Natino Lacamera che era il membro del
PCI nel CLN di Cosenza) voleva agire con un atto di forza. L’anima democratica capiva la
delicatezza del momento e voleva calmare gli animi, come esemplarmente fece mio padre, e
accettare la decisione della magistratura di uno Stato nascente di cui comunque, nel bene e nel male,
i comunisti erano una componente.
Una canzone dialettale dedicata a mio padre ha colto quel momento in una strofa:
No pecchì ca simu forti
Aperiamu chille porte
Ppe la favuce e llu martiellu
Lli ccè gire llu cerviellu
Eravamo forti e potevamo aprire le porte del carcere, ma gli ideali della falce e martello erano ormai
altri non più quelli della rivoluzione violenta.
Mio padre passò otto lunghi mesi al secondo piano dell’attuale Palazzo Arnone.
A nulla valsero gli interventi del suo amico e compagno Ministro Fausto Gullo e probabilmente
anche gli interventi di Pietro Mancini. Uscì dopo la lunga detenzione, probabilmente, in seguito
all’intervento di Palmiro Togliatti, Ministro della Giustizia del Governo Parri.
Quando uscì dalla galera da lì a poco ci fu uno dei primi congressi del PCI che si teneva nell’attuale
Cinema Modernissimo (allora Supercinema). Al tavolo della presidenza c’era Pietro Secchia in
rappresentanza della Segreteria nazionale del PCI. Mio padre entrò come tutti da una porta laterale
mentre iniziavano gli interventi.
Subito lo riconobbero e tutti, istintivamente, senza alcun annuncio dal palco degli oratori, si
alzarono in piedi e lo applaudirono a lungo.
Dai racconti di Silvio Lecce già Sindaco di Spezzano Sila e Salvatore Cava pedacese, oggi emigrato a Milano.
(Pedace, estate 2004)
Questa frase è quella che ricorda mio padre nelle sue memorie. (Atti della mostra documentaria su “Antifascismo e
lotta dei contadini per la terra in Presila”, Pedace, 2004)
Atti della Commissione per l’Epurazione. Fondo Curcio
Dai Verbali del CLN della Provincia di Cosenza. Fondo Curcio