Una delle questioni più volte sollevate da "Ora locale" riguarda l'urgenza di
promuovere la ricostruzione di forme di vita comunitarie, di un insieme di relazioni
sociali sottratte alla logica utilitaristica. Si tratta di una ipotesi di ricerca per quella
sinistra che, rifiutando la riduzione a semplice variabile politica dipendente dal modo
di produzione postfordista, accetti di misurarsi con gli esiti della dissoluzione del
legame sociale e di rintracciare, nelle condizioni storiche date, i percorsi possibili per
produrre quella socialità oggi ridotta a merce. Un processo, quest'ultimo, incalzante e
che ha radici nei mutamenti caratterizzanti l'accumulazione nell'attuale fase.
D'altronde le sollecitazioni a "farsi imprenditori di se stessi", "a farsi impresa", non
fanno che proporre agli individui la razionalità dell'impresa come regola di
comportamento, come struttura logica di ogni operare, come forma di pensiero e di
vita.
L'impresa, scrive Andrè Gorz nel suo ultimo libro, L'immateriale, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, è un paradigma che deve essere imitato, ricopiato,
introiettato, che richiede l'assunzione a sé dell'intera società e dell'insieme dei
sottosistemi che la compongono. Tutto deve rispondere in primo luogo al rapporto
ottimale tra investimenti e profitti, tra costi e benefici; ciò che non risponde a questo
imperativo è spreco, prodotto sociale superfluo, «coscienza eccedente» al puro
fabbisogno aziendale che richiede al produttore una «mobilitazione totale» delle sue
capacità e disposizioni affettive; conseguibile solo suscitando una nuova servitù
volontaria, sollecitando l'auto-trasformazione delle soggettività in un capitale fisso
che richiede di essere continuamente riprodotto, modernizzato, ampliato, valorizzato. (1)
La vita diventa il capitale più prezioso e la frontiera tra lavoro e non lavoro si
cancella, il tempo della vita ricade interamente sotto il dominio del calcolo
economico: è in questo modo che l'atto di autoproduzione si svolge in relazione alla
valorizzazione capitalista a cui il soggetto deve funzionalizzare se stesso per avere
accesso al mondo sociale.
Ma l'asservimento di sé, constatato nel processo lavorativo, si realizza anche e
soprattutto nella sfera del consumo; l'appello alle spinte inconsce, alle motivazioni
irrazionali, ai fantasmi e ai desideri inconfessati delle persone trasforma i prodotti in
vettori di un senso simbolico. E' il trionfo del marketing, non più concentrato sulla
vendita ma sulla creazione di rapporti a lungo termine per conseguire la
mercificazione dell'intera esperienza di vita degli individui, dell'immaginario
collettivo, delle norme comuni e soprattutto del linguaggio dal cui dominio e
controllo dipende la possibilità di pensare e di esprimere una diversa dimensione
relazionale.
Trattare il linguaggio e la conoscenza come un capitale e un mezzo di produzione
significa in definitiva ridurre tutta l'attività umana tutte le capacità cognitive,
estetiche relazionali, corporali ecc. ad attività strumentali di produzione e di
conseguenza valorizzare e selezionare quelle conoscenze la cui potenzialità
strumentale è manifesta.
Ma le «conoscenze vive» e, più in generale, le capacità umane sono prodotte nella
libera cooperazione; si tratta di esternalità positive, di un accumulo di saperi che si
sviluppano al di fuori dell'impresa prima di essere eventualmente cooptate e
«valorizzate» da questa come «capitale umano».
Le ricchezze primarie, fonte virtuale e condizione di tutte le altre, non possono
essere prodotte da alcuna impresa, non possono essere contabilizzate in alcuna
moneta, non possono essere scambiate contro alcun equivalente. Il dominio del
valore di scambio, secondo Gorz, ha reso invisibile l'esistenza di una economia
primaria fatta di attività e di relazioni non mercantili mediante le quali sono prodotti
il senso, la capacità di amare, di cooperare, di sentire, di legarsi agli altri, di vivere in
pace con il proprio corpo e con la natura.
E' in quest'altra economia che gli individui producono la propria umanità, al tempo
stesso scambievolmente e individualmente, e producono una cultura comune. Un tale
riconoscimento implica l'esigenza di una inversione del rapporto tra produzione di
valore mercantile e la produzione di socialità: «la prima dev'essere subordinata alla
seconda» (2).
Senonché la mercificazione del vivente ne riduce sempre di più i margini, riconduce
ogni relazione al valore che può avere sul mercato, frappone ostacoli alla circolazione
e alla messa in comune dei saperi e delle conoscenze, mediante il controllo e la
privatizzazione dei mezzi di comunicazione e di accesso. Esclude ogni forma di
"spreco", ogni acquisizione di esperienze e conoscenze che non rivestono alcun
valore in sé; tutto deve essere conforme al «bene comune» incarnato nell'efficacia
aziendale.
Gli imperativi del mercato rifiutano ogni velleità formativa, ogni «coscienza
eccedente» o «superflua», in sostanza tutta quella ricchezza culturale che non
risponde alle leggi dell'economia di mercato ma che potenzia la libertà dei soggetti.
Allo stesso tempo però la sopravvivenza dell'impresa in un ambiente complesso
dipende dalla facoltà di autorganizzazione, dalla sua capacità di promuovere lo
sviluppo dell'intelligenza collettiva e individuale che è limitata dalla privatizzazione
dei saperi, dalla disgregazione del tessuto relazionale e dalla riduzione a valore
scambio di ogni processo di produzione culturale e di senso.
Da questo punto di vista l'era del general intellect sembra evocare la necessità di
subordinare la razionalità economica a criteri diversi da quelli che l'hanno definita e
misurata finora, e di ridefinire la nozione di ricchezza sottraendola all'egemonia delle
categorie economiche.
Va invertito il rapporto tra uomo e produzione, è quest'ultima che va subordinata
alla produzione di sé, allo «sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni
universali nella produzione non meno che nel consumo» (3).
E' in questo quadro di indicazioni che la ricchezza può ridefinirsi in termini diversi
da quelli coniati dal produttivismo e centrati sullo sviluppo dell'individuo sociale,
assumendo da subito la rivendicazione di un "reddito di esistenza", incondizionato e
sufficiente, che permetta a tutti non solo di far fronte alla discontinuità, alle
intermittenze, alla precarietà dei rapporti di lavoro, ma soprattutto di sviluppare
attività indipendenti il cui valore sociale e/o culturale non può essere misurato
mediante la loro redditività né dipendere da lei.
Si tratta in questo modo di restringere la sfera della creazione di valori di scambio,
di liberare la produzione di sé dai vincoli della valorizzazione economica per
facilitare il pieno e incondizionato sviluppo della persona al di là di ciò che è
funzionalmente utile alla produzione.
L'azzardo è nella proposta di sperimentare, negli interstizi di una società in crisi,
un agire capace di riprodurre quella socialità e quella dotazione di senso che
l'economia formale va consumando con velocità accelerata e senza le quali nessuna
società può sopravvivere.
Su questa base è possibile porre un limite al dilagare della componente
individualistico-egoistica, già di per sé molto potente negli individui e rafforzata da
un sistema produttivo fondato sulla concorrenza e sulla competizione selvaggia4, da
una pedagogia praticata tramite le regole di un mercato che impone ad una
moltitudine dispersa e frammentata un conflitto interno permanente.
Il reddito di esistenza quindi se vincolato solo al recupero delle forme di vita
comunitarie, alla ricostruzione del legame sociale, alla salvaguardia e alla gestione
dei beni ambientali e culturali, alla formazione e all'autoformazione finalizzata ad
una cura di sé sottratta alla produzione di merci, acquista carattere di presupposto
materiale per una democrazia partecipativa che per essere tale richiede spirito
comunitario e interesse per le sorti della collettività.
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Note:
1) Cfr. ivi, pp. 18-19
2) Ivi, p. 57
3) Ivi, p. 62
4) Cfr. M. Alcaro, Identità individuali e identità collettive. Per una «democrazia possibile»,in «Critica marxista»,
settembre-ottobre 2003, p. 24. Ma «accanto alle spinte individualistiche [...] troviamo negli umani anche pulsioni e
motivazioni che possiamo definire cooperativistiche e altruistiche»; un dualismo che «rompe la rigida contrapposizione
fra l'universalismo dello Stato e il particolarismo della società civile.» e apre sulla possibilità di concepire lo Stato
«come il coronamento o lo sbocco delle spinte cooperative operanti già nella società», come «prolungamento delle
pratiche collaborative presenti nella società» (Ibidem)