Un ventennio abbondante di politiche neoliberiste, attuate in forme e
gradazioni diverse da tutti i governi dell'Occidente capitalistico, nessuno escluso, e
associate ad una massiccia intensificazione degli scambi a livello planetario, hanno
radicalmente mutato il paesaggio sociale ed economico di interi continenti e paesi. In
Italia, ad esempio, l'effetto forse meno visibile, ma più devastante per gli equilibri di
una società in cui termini come equità e solidarietà non erano mere enunciazioni di
principio, è stata una artificiale scomposizione fra la sfera economica, sociale e
politica. E la successiva ri-composizione sotto il segno dominante dell'economico.
L'ambito economico, insomma, sembra aver inglobato e riassunto in sé quello
che in passato era il perimetro proprio del politico e del sociale. I casi di numerose
attività di volontariato o delle grandi macchine mediatico-organizzative costruite per
facilitare la spedizione di aiuti a popolazioni bisognose, che spesso divengono
occasioni di reddito, camuffate da finalità umanitarie e politiche, sono forse i più
emblematici. E, d'altro canto, chi non ricorda la missione "Arcobaleno" ai tempi
della guerra del Kossovo?
Questo prevalere di un singolo elemento a scapito degli altri due, di cui ha
scritto a più riprese anche Mario Alcaro, la dice lunga sulla centralità acquisita
dall'economia in epoca di globalizzazione neoliberista e di "pensiero unico". E,
soprattutto, sul contestuale impoverimento registrato dalla vita politica e democratica
di intere comunità.
Ora, se è vero che come ha sostenuto Saskia Sassen è iniziata "la crisi del
progetto globale neoliberista e delle istituzioni" ad esso legate (Fmi, Wto, Banca
mondiale), si potrebbe aprire qualche spiraglio per riportare ad unità ciò che è stato
impropriamente scisso. Detto altrimenti: il momento attuale si presterebbe, come mai
da vent'anni in qua, per iniziare a pensare in maniera alternativa al modello
economico imperante. Anche se, occorre sottolineare con forza, non siamo certo
all'anno zero. E difatti, le prove di "un'altra economia" che per usare una formula
marxiana prediliga il valore d'uso al valore di scambio, e guardi all'ambiente e al
territorio come risorse da tutelare e valorizzare, sono una realtà in crescita.
Il commercio equo e solidale, il consumo critico, il turismo responsabile, la
finanza etica, non si basano forse sulle relazioni e l'arricchimento interpersonale,
sulla solidarietà verso i meno fortunati a scapito della ricerca ossessiva del profitto?
Non guardano, forse ai bisogni, ai saperi, alle tradizioni di ogni territorio, in
alternativa al modello unico di crescita imposto dalla globallizzazione neoliberista?
E, in alcuni casi, non sono frutto di partecipazione collettiva?
L'alternativa ad una crescita economica incontrollata, che divora a ritmi
esponenziali le residue risorse del pianeta, può essere data proprio da uno sviluppo
responsabile, perché tarato sulle esigenze delle comunità e progettato in ambito
locale, mediante la partecipazione di circoli, associazioni e comitati di quartiere. La
scelta del "partire da sotto casa", non è dettata da una ossessione per il piccolo, per il
micro, e tanto meno da preconcetti negativi nei confronti dei soggetti economici
tradizionali, che operano su scala macro, ma "dalla ricerca del risultato visibile". Un
concetto che è stato ripetuto più volte nel corso di un convegno internazionale
dedicato allo Sviluppo locale partecipato (Roma, 7 settembre 2004).
Ma l'aspetto forse più interessante di questi esperimenti, che uniscono
amministratori e cittadini, è dato dalla molteplicità dei percorsi che si possono
costruire nella ricerca di modelli di sviluppo alternativi. Non c'è bisogno di
aggiungere che ogni città paese o borgo presenta problematiche, potenzialità e
situazioni spesso uniche. E che uniche - o quasi - debbano essere le risposte da
fornire: perché "non esistono ricette facili da applicare ovunque" - ha sostenuto Luigi
Nieri, assessore alle Politiche per le periferie e lo sviluppo locale del Comune di
Roma -; ma "è richiesto un continuo esercizio del dubbio, della critica e della
ragionevolezza" (che è propria del politico e si oppone al "razionale
dell'economico").
A oggi, quindi, uno dei pochi percorsi di partecipazione non episodici è dato
dalla discussione e dal confronto sul "bilancio partecipato": uno strumento che si
inscrive in un logica che vede il tramonto della "politica parlata", in favore delle
"pratiche agite nei territori locali" - ha scritto Giovanni Allegretti, nell'introdurre un
testo di Boaventura de Sousa Santos, Democratizzare la democrazia - I percorsi della
democrazia partecipativa, Città Aperta (pp. 548, 30,00) -. Perciò, nel richiamare
criticamente l'uso strumentale e propagandistico che ne hanno fatto alcune
amministrazioni locali italiane, egli sostiene che il bilancio partecipato "non si
proclama, si pratica. E spesso a partire dalle periferie". Il fine ultimo di questo
strumento essendo la partecipazione "non episodica", per l'appunto, del cittadino alla
vita della polis.
Per il resto non esistono certezze sulle quali cullarsi. Anzi, nel promuovere la
partecipazione dei cittadini delle grandi periferie cittadine, Nieri invita alla prudenza.
E afferma: "occorre tener conto della degenerazione del tessuto sociale, della
supremazia dei modelli consumistici, delle alienazione individuali e collettive. Quindi
attenzione agli slanci superficiali e poco ponderati, che rischiano di degenerare in
populismo e modalità concertative". Ma a tutto questo non dovrebbe dare una
risposta la politica? Sia come sia, l'unica certezza che egli nutre, per il momento,
riguarda le metodologie: che per evitare equivoci ed errori, ritiene debbano essere
"chiare, trasparenti, includenti, flessibili secondo i contesti". E' già qualcosa.