La violenza è vecchia almeno quanto l'uomo. Si può anzi dire che essa sia inscindibile, per
alcuni aspetti, dalla storia dell'umanità, perché spesso ha accompagnato e contrassegnato tappe
significative della sua evoluzione (o involuzione, a seconda dei casi). Queste considerazioni
generiche (perché condivise da tutti) vengono immediatamente alla nostra mente in occasione della
denuncia di violento tentativo di condizionamento della vita democratica della città di Villa S.
Giovanni con cui il Sindaco Rocco Cassone ha accompagnato le sue dimissioni dalla carica
istituzionale che ricopre su mandato dei suoi cittadini.
Ma fermarsi a queste scontate e, in un certo senso, banali considerazioni non basta. Occorre
fare di più, occorre far sentire le nostre voci che rompano l'assedio del silenzio che rischia di far
diventare afona la nostra democrazia.
Cominciamo col dire che la violenza è sempre una brutta cosa. E brutta rimane anche se
filosofi e sociologi, storici della cultura e teorici del diritto si sono variamente applicati a
distinguere fra un uso `buono' ed un uso `cattivo' di essa. In alcuni casi la violenza è stata
addirittura esaltata come forza rigeneratrice dell'umanità. Ma anche nelle giustificazioni più ardite
di essa, legate ai grandi fenomeni rivoluzionari della storia, se ne sono tuttavia sempre riconosciute
le inevitabili dilacerazioni e le enormi sofferenze sociali ed individuali.
<<Mi piacerebbe essere un saggio - cantava Bertolt Brecht in una famosa ode indirizzata Ai
posteri- e vivere senza violenza/ ripagare il male col bene>>. Ma non è possibile. Perché
<<veramente viviamo in tempi oscuri>>; in tempi, cioè, in cui noi tutti siamo vittime di una
violenza, quella dell'ingiustizia e della disuguaglianza, che minaccia l'umanità dell'uomo. Certo,
proseguiva il drammaturgo tedesco, lo sappiamo bene: anche l'odio, anche l'ira contro l'ingiustizia
<<stravolge il viso>> e <<rende la voce roca>>. E concludeva: <<Ahimè, noi/ che volemmo
preparare il terreno per l'amorevolezza/ non potemmo noi stessi essere amorevoli/ Ma voi, quando
finalmente accadrà/ che l'uomo sia d'aiuto all'uomo/ pensate a noi/ con indulgenza>>.
Ho voluto riportare i versi di un poeta del nostro tempo perché i poeti, quando sono realmente
tali, riescono a concentrare in poche battute una straordinaria forza significativa con cui percepiamo
un senso (o una pluralità di sensi) che, in molti casi, trattati pieni di dottrina non sono in grado di
comunicarci. Quei versi ci dicono che, anche quando la violenza sia l'unico strumento, disperato e
disperante, con cui tutelare la nostra integrità fisica e morale; anche quando, cioè, il suo uso può
avere una qualche legittimazione etica e storica; ebbene, anche in questi casi rende quasi disumano
chi la compie. `Stravolge il viso' e `rende la voce roca'. Per questo il poeta chiede scusa in anticipo
all'umanità futura, invocandone l''indulgenza'. La violenza è talmente orrenda, sembra dire Brecht,
che noi l'abbiamo con rammarico adoperata per estirparla; per impiantare il terreno
dell''amorevolezza' e della pacifica e libera convivenza in cui voi che verrete dopo di noi potrete
vivere senza violenza.
Nonostante, dunque, la bontà dello scopo, quello di costruire una società solidale, senza odio e
senza violenza, una società fondata sull'amore, che è uno dei fini più alti che l'uomo si possa
proporre di realizzare nel corso della sua esistenza; nonostante questo, la violenza rimane comunque
un male inemendabile, come aveva capito uno dei più grandi Papi che sia asceso al soglio
pontificio: Giovanni XXIII, il `Papa buono'. Cosa diceva di così `straordinario' Papa Giovanni?
Diceva delle cose estremamente `ordinarie'. Diceva, per esempio, che il bene è il bene, e che a chi
lo compie non bisogna chiedere la carta d'identità, ma mettersi in cammino in sua compagnia.
Diceva anche che il male è il male, chiunque lo compia e comunque si tenti ti giustificarlo o di
camuffarlo.
Se da queste considerazioni generali gettiamo ora uno sguardo sul mondo in cui
quotidianamente viviamo, ci accorgiamo che, forse, siamo giunti a un punto in cui nemmeno le
parole dei poeti ci possono più `salvare'.
La violenza, oggi, si declina in molti modi. Non solo in quelli, orribili e tragici, della forza o
in quelli brutali della repressione, dell'oppressione e dell'apartheid o, ancora, in quelli, altrettanto
perniciosi, delle rigide contrapposizioni ideologico-politiche. Ma anche nelle forme subdole, e per
questo pericolosissime, del ricatto, della minaccia, delle imposizioni occulte che mirano a
condizionare le volontà e le libertà di una comunità. E se nel primo caso, dalla strage delle Due
Torri a quella dei bambini ceceni di Beslan, si parla di "violenza cieca", e in quello della politica di
"violenza verbale", nell'ultimo caso si potrebbe parlare di "violenza silenziosa".
A questo tipo di violenza fa pensare, oltre che alle genericità di cui si diceva all'inizio, la
vicenda delle dimissioni del Sindaco Cassone. Questa violenza è silenziosa non già perché muta.
Tutt'altro. I suoi effetti sono altamente eloquenti e devastanti. E' silenziosa perché, come i vampiri,
ha bisogno del buio, dell'oscurità che nasconde tracce, volti e mani. Ha bisogno dell'anonimato e
del silenzio come complicità e assuefazione ottenute con la forza del ricatto e della minaccia. E' una
forma subdola e terribile di violenza perché è pura, assoluta. Non ha alibi, non ha alcun terreno su
cui poggiare. E' come sospesa nel vuoto. E può sopravvivere solo attraverso il silenzio. Tutto ciò, se
non fosse tragico, sembrerebbe banale e paradossale. Che violenza è mai quella che impone
violentemente il silenzio col silenzio? E' enorme, perché condiziona la volontà, le coscienze; perché
impone la sua legge alla convivenza civile. E una convivenza le cui scelte siano imposte dal buio
della violenza è, oltre che un paradosso, una ferita non rimarginabile inferta nel tessuto vivente
della democrazia.
L'unico modo per contrastare e vincere questa violenza peggiore di ogni violenza è quello di
far saltare la sua valvola vitale: il silenzio. Bisogna parlare. Di più: bisogna urlare con tutto il fiato
che si ha in gola e dire a chi manda messaggi dalle caverne che non passerà. Il Sindaco Cassone ha
già dato l'esempio parlando e denunciando. Denunciando ai suoi concittadini gli avvertimenti e le
minacce di cui è stato fatto oggetto. E parlando forte alle altre componenti della società politica
affinché non accada più (come purtroppo molte volte è accaduto in passato) che un uomo che
governa una città sia e appaia solo. Noi dobbiamo unire le nostre voci alla sua. E non solo per un
elementare senso di `solidarietà democratica' come, sempre più stancamente, si ripete ogni volta
che si verificano fatti simili. Ma soprattutto per urlare nelle orecchie di chi sta nel buio e vuole
condizionare le nostre vite. Perché è della nostra vita, della nostra libertà e dei nostri destini che si
tratta, non solo di quella del Sindaco di Villa S. Giovanni. Guai se si pensasse che si tratta di "affari
loro", delle solite "cose della politica" come sfera separata. Guai, perché questa estraneità e questo
silenzio ridarebbero nuovo ossigeno a quella violenza.
Certo, gli attestati di solidarietà espressi a Cassone da parte del mondo politico attraverso le
televisioni e i giornali sono una cosa buona. Ma bisogna parlare più forte. E non è detto che l'urlo di
una comunità si debba misurare per forza in decibel. Anche esso si può testimoniare nel silenzio.
Per esempio facendo sentire la propria vicinanza al Sindaco e, tramite lui, alle istituzioni
democratiche; facendo sentire la propria determinazione a non accettare imposizioni e ambigue
convivenze. Per esempio illuminando con migliaia e migliaia di fiaccole le piazze e i vicoli della
propria città, facendo, anche qui, sentire a chi sta nel buio delle caverne che il chiarore abbagliante
della ragione arriverà presto anche lì.