Posso dire anch’io la mia su qualche problema universitario? Penso di avere qualche
titolo a farlo, non foss’altro perché, proprio all’inizio del mio non breve rettorato,
dovetti affrontare una dura e lunga contestazione provocata dall’aumento delle tasse,
imposto da una legge e, prima ancora, dal lisibile livello a cui s’erano ridotte le
contribuzioni studentesche a Napoli, dopo anni di immobilismo.
*Senatore della Repubblica
Allora, e la cosa mi sconcerta, sentii quasi le stesse cose che sento ripetere oggi,
come se fossero novità assolute, e, per di più, condite perfino, talora, da un pizzico di
sarcasmo. Le famiglie dei meno abbienti sopportano il peso maggiore dei costi
universitari, perché non mandano, in prevalenza, i figli all’Università o ne mandano
meno, rispetto alle famiglie benestanti (il che, oggi, è meno vero di ieri, come si
vedrà). E si trascura che le tasse sono meno di un 10% degli introiti delle Università.
Alla “Federico II”, almeno ai miei tempi, quando, dopo l’aumento, le entrate delle
tasse furono raddoppiate (diventando poco più di 90 miliardi di vecchie lire), la
percentuale era quella indicata, se è vero, com’è vero, che il bilancio universitario
(senza contare quello del Policlinico e dei Dipartimenti) mediamente oscillava tra
1200 e 1400 miliardi di lire all’anno. E potrei continuare con altre cose, forse
ragionevoli in sé, ma ormai fuori contesto. Voglio solo aggiungere che il sistema
allora adottato (e credo ancora oggi in vigore) distingueva le contribuzioni
studentesche in ben 14 fasce di reddito, per cui i meno abbienti quasi non ebbero
aumenti e continuarono a pagare intorno alle 500 mila lire, come prima dell’aumento.
Ne discende la conferma del perverso criterio delle democrazie popolari, “io fingo di
pagarti e tu fingi di darmi servizi”? Confesso che non lo credo, se è vero, come è
vero, che i nostri laureati erano (e sono, salva la verifica degli effetti del nuovo
sistema dei diversi segmenti di laurea) i migliori d’Europa. Forse, anche per questo i
loro cervelli sono “in fuga”, come stancamente e scioccamente si ripete, con una delle
tante litanie che ormai costituiscono i discorsi sull’Università, un oggetto più noto
che conosciuto, del quale tutti ritengono di poter parlare in nome di qualche ricordo
di giovinezza o per qualche elegante chiacchiera salottiera. Ma non voglio continuare
e passo oltre, non prima di manifestare pubblicamente ed entusiasticamente il mio
consenso al lucido intervento, denso e pensoso, dell’amico Casavola sul “Mattino” di
febbraio.
Qualcuno crede (tranne Casavola e me e pochi altri) che oggi il problema delle
Università stia nelle disfunzioni e malfunzioni, che pure esistono e vanno denunciate
e corrette? Oggi le ragioni della crisi sono ben più sostanziali e le disfunzioni sono
conseguenze non causa. Oggi si vivono anni di radicali trasformazioni, che non
possono non investire la vecchia Università. L’antica connessione assai stretta tra
Atenei e Stato nazionale è definitivamente rotta. Oggi la nostra è sempre più una
società della conoscenza e questa impone una richiesta variegata di formazione, a cui
le Università devono fornire una risposta adeguata. Inoltre la ricerca non è più
caratterizzata dalla dominanza di questa o di quella scienza o filosofia generale, ma
dalla pluralizzazione ed interazione dei saperi positivi. E di ciò le Università devono
dar conto, riformando radicalmente la loro didattica per conservarne il nesso con la
ricerca rinnovata. Di questo scenario i giovani sono parte importante. Casavola ha
sottilmente fatto cenno della difficoltà della condizione giovanile, che si traduce in
insofferenza e contestazione dinanzi ad una globalizzazione che può mettere in crisi i
bisogni, le esigenze dell’individuo contemporaneo (l’amicizia, la solidarietà, la
sicurezza) mettendo a rischio la libertà che alimenta -ed è alimentata- da quei bisogni.
Io aggiungo un’altra osservazione, che non può non incidere e molto sui
comportamenti giovanili. Oggi in Europa, mediamente, circa il 90% dei
diciottenni/diciannovenni consegue il titolo di scuola media superiore, che ne fa dei
potenziali studenti universitari. Voglio dire che le richieste rivolte alle Università
sono enormemente ampliate, con accresciuta richiesta di formazione e di formazione
professionalizzante. Tutto ciò si traduce in due grandi questioni: la maggiore
pressione sulle vecchie strutture universitarie (non sempre, anzi poche volte attrezzate
a rendere i servizi necessari a governare questa pressione e ciò che essa comporta); la
difficile ricerca del punto di equilibrio tra quantità e qualità della formazione. E la
qualità della formazione si riflette sulla concorrenza imposta da maggior numero di
aspiranti alla laurea. E una formazione di qualità non serve in una società della
conoscenza globalizzata.
Per farla breve è cambiato il modello di Università: il vecchio non serve più e il
nuovo non si individua con nettezza, anche perché sono in pochi quelli che lo
cercano, ponendosi due domande: qual è l’Università che serve e a che cosa serve e a
chi l’Università?
Ed allora, non nego la rilevanza dei costi della formazione universitaria e la necessità
per le Università di ricevere adeguati finanziamenti. Ma il problema va capovolto,
così come capovolto è il modello di Università nuova. Se in questa diventa centrale la
figura dello studente quale portatore delle istanze della società della conoscenza, per i
costi e i finanziamenti bisogna partire dalla individuazione del modello e poi chiedere
i finanziamenti per spese crescenti e destinate, inesorabilmente, a crescere perché
imposte dalla variegata richiesta di formazione, sempre più ampia e raffinata,
nonostante le sue misure di massa e non di élite. Su ciò, anche da rettore, non ho mai
concordato con l’ordinamento prevalente della CRUI, dominata dalla contingenza,
oggi divenuta drammatica penuria e precarietà.
Questo problema mi riporta alla questione delle contribuzioni studentesche. Non è
pensabile (e non lo è dappertutto) che la nuova situazione e le nuove esigenze siano
soddisfatte dai privati o dai cittadini che richiedono di entrare nelle Università, perché
questi sono, nella stragrande maggioranza, proprio i figli dei meno abbienti. Siffatta
situazione può e deve essere affrontata solo dallo Stato e ciò a prescindere perfino
dall’ideologia pubblicistica o privatistica che si abbia dell’Università e dello Stato. In
Italia lo Stato corrisponde l’80% dei finanziamenti universitari. Ebbene, questa è la
media di tutti i Paesi Europei (qualcuno dei quali vede, addirittura, il 100% a carico
dello Stato). Ma quel che è più, anche i Paesi per i quali (erroneamente) si parla di
privilegiamento del modello privatistico, intervengono consistentemente nei
finanziamenti alle Università: il Canada con il 60%, gli Stati Uniti con il 49%, il
Giappone con il 30%. Solo la Corea con il 26%. Vogliamo imitare la Corea, forse
dimenticando le botte che ci inflisse in un famoso campionato del mondo di calcio?
La ragione di tutto ciò è semplice: quello fornito dalle Università è un servizio
pubblico, forse il principale servizio pubblico in una società della conoscenza.
Attraverso di esso ne va delle fortune, del destino di un Paese. Appare evidente da ciò
quanto sia miope la politica del nostro governo, che pensa solo alla ricerca applicata
(come se questa regga senza la ricerca di base) e ad una dimensione aziendalistica
delle Università. E’ un’aberrazione, un suicidio, meglio un omicidio, altro che
liberalismo (del resto i nostri governanti non sanno che cos’è stato e che cos’è il
liberalismo; di certo della Ricchezza delle nazioni non hanno mai visto neppure il
frontespizio). Ma non è finita, e questa volta il discorso non riguarda solo i nostri
governanti e i loro ineffabili consiglieri, ma tanti avanguardisti di altre parti
ideologiche. Non c’è nulla di più inconsistente che adottare questo o quel modello
astraendolo dal contesto di cui è parte, dalla strutturazione sociale che esprime e da
cui è espresso. Le Università non sono mai state un corpo estraneo (e meno che mai
lo potranno essere domani) alla società in cui e per cui operano. Qualcuno pensa che
la struttura socio-economico-culturale italiana possa consentire una Università
organizzata e gestita privatisticamente? Se c’è, lo dica, sarà divertente sapere in quale
Paese crede di vivere e di quale idea liberale crede di essere seguace.
Concludo per oggi, benché molto altro ancora ci sarebbe da dire e lo faccio con una
sola osservazione conclusiva: fino a quando si continuerà a chiacchierare tenendo
presente un solo profilo della questione, sia pure importante (lo stato giuridico della
docenza, gli accessi, i concorsi, ecc.) senza un’impostazione sistematica e
complessiva, non si andrà lontano dal chiacchiericcio generico, insulsamente
ideologico. E intanto la crisi si aggraverà e le contestazioni aumenteranno. Poveri
noi!
------------------------------------------------------------------