Il dibattito politico avviato da "Ora Locale" appassiona tutti coloro che vivono con sempre maggiore sofferenza il dilemma se rimanere in Calabria per offrire un piccolo contributo in una regione bisognosa di tutte le possibili energie ovvero spostare altrove il centro degli interessi professionali e, quindi, sociali e familiari.
La sensazione di isolamento, di preventiva sconfitta, a meno di non confrontarsi con metodi eticamente non corrispondenti ad una seppur minima coscienza ancora attiva, sembrerebbe assumere (dis)valore predominante.
Altrove le condizioni saranno medesime, ma almeno gli orizzonti sono più vasti e la possibilità di trovare collocazione dignitosa, realizzazione professionale e giusta retribuzione economica sarà meno faticosa, e ciò in un contesto sociale che offre maggiori opportunità.
Per quel che mi riguarda, in passato non ero avvinto da tanto disincanto.
Anni addietro ho tentato di promuovere un sussulto di partecipazione civile nella mia comunità. Assumendo una griglia di valori comuni e condivisi, alla luce della ineludibilità dei problemi, l'idea era spingere la comunità locrese verso la consapevolezza di poter determinare il proprio sviluppo; il convincimento che si potesse elaborare una via, un progetto, una visione, si potesse avere una immagine, una proiezione positiva del proprio futuro e, contemporaneamente, tentare uno scatto d'orgoglio collettivo capace di innescare un percorso virtuoso.
Era il 1992. Utilizzammo termini che oggi mi sembrano retorici, ma allora erano frutto di passione, quali "risarcimento locrese", "nuova cultura della partecipazione", "qualità della vita", "individuazione di priorità all'interno di uno sviluppo urbano complessivamente considerato" ecc. ecc.. Costituimmo una lista elettorale per le elezioni amministrative espressione di tutte (o quasi) le associazioni presenti in città, scegliemmo un candidato sindaco adeguato a rappresentare il progetto e mandammo a casa un'intera classe politica dominante. Riuscimmo ad ottenere la maggioranza assoluta dei consensi. Oggi ancora scopro che molti cittadini pensarono in quel periodo di doversi attivare e fare qualcosa anche loro per la comunità: eravamo riusciti ad innescare un circolo virtuoso. Ma stante i nostri errori personali, la inesperienza dei più, la carente e non ancora riformata legislazione sugli enti locali che non garantiva stabilità politico-amministrativa, soprattutto la subdola e fortissima pressione di coloro che erano stati esclusi, la miopia di quelle forze che si proclamavano illuminate e progressiste, ma che non esitarono ad allearsi con la vecchia classe dirigente, fummo quasi subito sconfitti.
Altrettanto precocemente quell'esperienza è stata dimenticata. Chi non è andato a Canossa ha subito anni di ostracismo. Mi chiedo ancora il perché di tale declino. La risposta più immediata è che Locri non ha certo il ricambio di classe dirigente in termini quantitativi e qualitativi che ha avuto la cd "primavera" vissuta a Palermo con Leoluca Orlando, ma se si guarda anche a quella esperienza non è che sia rimasto molto.
In verità, il problema forse è più vasto e assume una dimensione di ordine generale. Non può sottacersi un fenomeno presente in Calabria, molto di più nella provincia di Reggio, ossia quello degli "ignoranti abilitati alle professioni".
Con questa immagine provocatoria possono essere descritte tutte quelle realtà presenti in tutti gli spaccati professionali (medici, commercialisti, avvocati ecc.), implementate dal costante incentivo alla mediocrità che proviene da chi rassicura, blandisce, promette, offre, malgrado non corrispondano sufficienti condizioni perché quell'ambizione (giusta sul piano personale, errata nella risposta) abbia accoglienza.
Ad esempio, gli uffici pubblici sono pieni di dirigenti bisognosi di formazione, i cittadini sono a volte o spesso "superficiali" nel manifestare il loro grado di educazione civica e di rispetto per la comunità alla quale appartengono.
In Calabria viviamo spesso problematicamente il rapporto tra meritocrazia e solidarietà umana, contrapponendo erroneamente concetti non sovrapponibili sullo stesso piano. Però, dietro questo facile alibi sono cresciute pratiche feudatarie e facili scorciatoie per raggiungere i propri scopi.
Non è certamente un fenomeno maggioritario, anzi.
E' stato soprattutto prodotto dalla sub cultura imperante per molti anni nei dintorni dell'Ateneo messinese, ma a me appare oggi largamente dominante in un contesto che è abituato a consolidare relazioni sociali basate sulla complicità più che sulla capacità, sull'appartenenza più che sull'efficienza.
Al contrario, alla Calabria e alla provincia di Reggio in particolare, necessiterebbe quale categoria dominante di pensiero, valutazione e di selezione quella del "rigore".
Rigore nel fare con precisione le cose quotidiane, nell'approccio metodologico, nei contenuti che caratterizzano l'impegno di ciascuno, nello studio e nell'approfondimento, rigore che si estrinseca nelle forme di socializzazione e nelle scelte di relazione, nonché di delega politica.
Rigore come esatto opposto dell'espressione "fai pure che poi si vede" o "si aggiusta".
Si riscontrano agevolmente eccellenze in tutti i campi ma sono isolate, ovvero riconosciute ma incapaci di evolvere a sistema o, ancora più semplicemente, subdolamente compromesse, tanto da non poter essere produttive di alcunché.
Necessita un progetto diffusamente condiviso, capace di produrre passione civile ed energia positiva (si veda l'esperienza della giunta Falcomatà a Reggio), percepito dai calabresi come realistico che offra, mantenendo un'unica visione, sviluppo armonico, articolato, individuazione di priorità e che valorizzi, organizzi e stimoli le vocazioni di tutto il territorio calabrese.
Non è più possibile nel 2004 continuare ad assistere a critiche al modello di sviluppo contenuto nel c.d. "pacchetto Colombo" perché significa che dopo non c'è stato più niente (intervento statale avente carattere di organicità e che prevedeva interventi per insediamenti industriali, istituzioni universitarie, ecc.; da sempre criticato perché imponeva una univoca visione dello sviluppo calabrese nel settore dell'industria cd. "pesante", rivelatasi poi fallimentare).
Altresì, serve una classe dirigente nel tessuto sociale calabrese che smetta di inseguire prebende e che individui come si può coniugare il suo interesse particolare con quello generale del territorio in cui opera, e, successivamente, che offra la propria capacità all'impegno politico, prescindendo dal ruolo ricoperto. La classe politica dirigente, dovrà essere riconoscibile come adeguata a gestire e incidere sulle drammatiche necessità che attanagliano la Calabria. Deve far ciò, non per mera ambizione personale, ma per gratuità del servizio, percepibile come attitudine ad assumere il rischio di una sfida di tale dimensione. Occorre, poi, che tale classe dirigente si innesti su un sistema esistente perché si finirebbe per combattere inutilmente solo all'interno del gioco politico, mentre, al contrario, è necessario l'apporto di tutti.
Molti sono i candidati alla presidenza della Giunta Regionale, e ciò legittimamente, ma se non riusciranno a corrispondere all'idea di un progetto appassionante e forte, alla loro pur possibile elezione, corrisponderà una ulteriore pagina negativa della storia di questa regione.