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Amici a Catanzaro

di Saverio Granato


Volgevano al termine gli anni cinquanta e stava per concludersi l’ultimo anno scolastico di quel declinante decennio.
Umberto, uno di quegli amici con cui avevamo percorso insieme l’avventura dell’infanzia e dell’adolescenza sui prati di S. Leonardo, sui sentieri della Scuola Agraria, e sui dirupi della valle della Fiumarella, quell’anno frequentava da ripetente il terzo superiore di un Istituto tecnico di Catanzaro. Alle viste, si profilava il rischio di essere nuovamente respinto la qual cosa gli avrebbe negato la possibilità di diplomarsi (all’epoca due bocciature consecutive comportavano “l’esclusione “ dalla scuola”). Era angosciato, aveva alle spalle una brutta storia di “cattiva salute” che sin da bambino aveva condizionato la sua esistenza. Gli era stato diagnosticato”un soffio al cuore” ed aveva subito un delicato intervento di cardiochirurgia ad opera del prof. Dogliotti di Torino, il più famoso cardiochirurgo dell’epoca.
Vista la situazione critica, Umberto cominciò a parlare con gli amici a lui più vicini. Fra questi c’era Mario, il direttore di questo giornale, e si cercò di concordare un piano che potesse scongiurare quel catastrofico evento. I legami di amicizia a quei tempi avevano il carattere di una società di mutuo soccorso.Ognuno metteva a disposizione della comunità le sue “competenze”. Mario, in quanto studente del liceo classico, veniva “utilizzato” per i compiti in classe di Italiano. Le tracce dei temi si trovava il modo di farle uscire e poi far rientrare il compito svolto ricorrendo ai più fantasiosi stratagemmi. L’anno in cui feci gli esami di diploma, Mario trascorse a casa mia diverse serate, fino a notte fonda, per “tradurmi” la “ Storia di un’anima” di Sapegno, interpretazione critica di Leopardi particolarmente ardua per uno studente di un Istituto Tecnico. Per rimediare a quella preoccupante situazione, si valuto’ che era di decisiva importanza per Umberto essere promosso in Inglese e a me, considerato bravo in quella lingua, tocco’ di svolgere il ruolo di cui si parlerà in questa narrazione. A fine anno scolastico, per i motivi che spiegheremo meglio nel prosieguo, Umberto doveva sostenere un esame scritto e orale di Inglese. Programmammo che dovessi aiutarlo per fare un buon esame scritto.
Il giorno in cui si doveva svolgere il compito “salai” (io ero iscritto ad un’altra scuola) e mi presentai davanti all’ingresso dell’Istituto Tecnico frequentato da Umberto, confondendomi in quella massa vociante , allegra e preoccupata insieme, che è rappresentata dagli studenti quando si accingono ad entrare a scuola. Il segnale d’entrata venne dato dall’urlo della sirena. Di li a qualche anno, molti di quegli ignari ragazzi, messi in una misera valigia di cartone pressato i loro modesti effetti personali, sarebbero stati richiamati dagli urli di ben più possenti sirene: quelle del Lingotto, Mirafiori, Bicocca,Arese , Falck, Breda,Ansaldo , andando ad ingrossare le fila di quella diaspora meridionale calamitata nel “triangolo industriale”. Entrai in quella scuola, con il vocabolario di Inglese, una grammatica e mi infilai direttamente in uno dei gabinetti. Mi chiusi li dentro, aspettando che mi arrivasse il testo del compito che mi sarebbe stato consegnato da un amico di Umberto o da un bidello, una persona di grande umanità sempre disponibile ad aiutare i ragazzi dell’Istituto. I bagni delle scuole di allora non erano come quelli di oggi. I WC erano di quelli cosiddetti “alla turca”. Mica ci si poteva sedere! Ci si doveva accoccolare per i bisogni . Passo’ una buona oretta, quando, finalmente, entro’ un ragazzo che mi passò il testo del compito. Mi chiusi nel vanetto del cesso e, stando all’impiedi, mi misi a tradurre. In poco più di mezz’ora ultimai la traduzione e rimasi in attesa del bidello che si sarebbe incaricato di farlo pervenire con uno stratagemma ad Umberto. Lo stratagemma, se non ricordo male, era che il bidello avrebbe aperto la porta dell’aula e, facendo finta di pulire il pavimento avrebbe spinto con un colpo di ramazza il foglio del compito appallottolato ad Umberto. Io me ne uscii e, una volta fuori, me ne andai alla villa Trieste, mèta classica degli studenti catanzaresi che” salavano”, se la giornata era bella, o, le sale di bigliardo se il tempo era inclemente. Quando si fece l’ora mi avviai verso casa, per dare l’impressione ai miei che la giornata si fosse svolta nella normalità. Nel pomeriggio , andai a casa di Umberto per chiedere notizie su come fosse andata. Lo trovai molto abbattuto. Il bidello, nonostante tutta la buona volontà, non era stato in condizione di passargli il compito che gli avevo tradotto, in quanto la sorveglianza degli insegnanti si era fatta molto serrata e lui si era dovuto arrangiare come poteva. La situazione si era fatta terribilmente delicata.
In quello stato d’animo molto angosciato,mi comunicò che la prova orale di inglese si sarebbe tenuta di li a due o tre giorni.Concordammo allora di metterci subito al lavoro, per cercare di rimediare al disastro dello scritto con un esame orale migliore. E subito cominciammo a ripetere la grammatica.Allora le lingue venivano insegnate battendo e ribattendo principalmente sullo studio della grammatica. Io in inglese me la cavavo bene perché mi piaceva molto la musica americana, che ascoltavo quotidianamente su un piccolo registratore, su cui avevo inciso centinaia di canzoni che rappresentavano ,come si direbbe oggi, gli “HITS” dell’epoca. E’ bene ricordare che quella rivoluzione epocale in campo musicale rappresentata dal ROCK ebbe inizio proprio negli anni ’50. Fu allora che nacque il Rock ‘n’ roll, , che si affermò il grande Elvis, lo stile a terzina dei Platters ecc. La grande passione per quella musica mi portava ad amare la lingua inglese.Di Sinatra,che aveva una dizione perfetta, è il caso di dire che “auscultavo” le canzoni. Ritornando alla nostra storia, cominciammo a ripetere la grammatica. Io facevo le domande e Umberto rispondeva. Gli chiesi la costruzione dei comparativi: farfugliò confusamente! Il genitivo sassone: un balbettìo! I verbi servili: silenzio assoluto. Ci guardammo demoralizzati. La partita era persa. Con un guizzo di inaudita audacia, dettato dalla disperazione, Umberto mi apostrofa dicendo.” Savè, ppecchì non vai tu a lu postu meu ma fai l’orala?.” Li per li rimasi inebetito. Poi gli replicai.” Tu si pacciu”.E lui di rimando:” No, aspetta ca ti spiegu” .” I professori chi t’hannu e ‘nterrogara non mi canuscianu ppecchì venanu e fora, sunnu e n’atra scola”. In effetti, all’epoca la situazione delle lingue straniere in quell’istituto era cosi. La lingua straniera “ufficiale” di studio era il francese,che veniva insegnata dalla fase dell’avviamento e poi continuata al superiore.Alcuni studenti però che si erano iscritti al “ superiore” provenendo dalla scuola media, dove avevano studiato come lingua straniera l’inglese (e questo era il caso di Umberto) o il tedesco, durante l’anno scolastico, non partecipavano alle lezioni di lingua,ma erano obbligati alla fine dell’anno a presentare il programma svolto e sostenere un esame scritto e orale,prova quest’ultima che veniva effettuata da insegnanti di altri istituti. Era proprio così. Come diceva Umberto. Quel temerario pertanto mi propose quella mossa disperata. Io ero sotto choc. Gli dissi:” Ma non sacciu mancu i nomi e l’atri professori toi. Si mi fannu ‘ncunatra domanda comu vajiu in Italiano, o in matematica, e mi dicianu cu è u professora. E poi si c’e sunnu atri guagliuni chi ti canuscianu e sa cantanu cchi facimu?”. Mi rispose “ Non t’appricara ca ma viju eu, ca’ on parra nuddu”. Ma lui riusci a convincermi, anche perché mi compenetravo in quel suo stato d’animo disperato e, comunque, mi pareva una vigliaccata voltare le spalle ad un amico in un frangente come quello. Gli dissi.” Va bbonu, scrivami i nomi de’ professori subba nu fogliu e carta ma mi ‘mparu a memoria”. Poi parlammo di altre circostanze da valutare, che potevano far saltare il piano. Umberto mi raccomandò:” Te stara sulu attentu si trasa dintra l’aula u segretariu. Ca mi canuscia e si senta ca ti chiami D. simu futtuti.”
Due giorni dopo, alle due pomeridiane di una assolata giornata di giugno, mi avviai con Umberto all’ingresso della scuola. Bivaccavano li davanti alcune decine di anime in pena che aspettavano di entrare per sostenere gli esami di lingua straniera. Erano gli studenti che, come Umberto, rappresentavano la” minoranza linguistica” dell’Istituto. Erano ragazzi del I II e III superiore che dovevano sostenere l’esame orale chi di inglese chi di tedesco. Ricordo che ce n’era uno che doveva fare l’esame di spagnolo! Aspettammo li davanti, Umberto era nervosissimo, fumava come un turco. Io avevo la bocca secca dall’ansia. Avevo la netta impressione di essere scrutato da tutti gli altri, che sapessero che cosa stava avvenendo, fingendo però che tutto fosse nella normalità. Un bidello si affacciò sul portone e ci invitò ad entrare . Mi imbrancai con gli altri ed entrammo in un’aula dove filtrava uno spietato sole pomeridiano. Saremo stati una trentina di ragazzi,c’era un po’ di confusione nell’aula. Entrarono due insegnanti (donne) le quali esordirono dicendo che chi non doveva fare esami era invitato ad uscire immediatamente dall’aula. Se non lo avesse fatto ed era un alunno dell’Istituto, se scoperto, sarebbe incorso in azioni disciplinari. Alcuni ragazzi si alzarono e uscirono dall’aula.Quindi iniziarono a chiamare l’appello. Quando fu chiamato il “mio “ nome risposi “presente”, alzando la mano, come usava allora. Alla fine dell’appello, le insegnanti rimasero perplesse. I conti con tornavano! Qualcuno che non doveva fare esami, si ostinava a rimanere lì. A quel punto le insegnanti ribadirono le minacce e,per stanare gli intrusi, chiamarono nuovamente l’appello,effettuando controlli più stringenti sull’identità di ognuno, minacciando fra l’altro di fare intervenire il segretario (quello che conosceva Umberto). La fifa cominciò a diventare grossa. Imprecavo contro quei maledetti figli di p… che non volevano uscirsene e fui io stesso tentato di alzarmi ed andarmene. Mi sembrava che mi fosse stata offerta una provvidenziale via di fuga.
Improvvisamente, due ragazzi si alzarono e uscirono. L’atmosfera nell’aula si rasserenò, le insegnanti si placarono. Dissero che , finalmente, potevano iniziare gli esami. In quel momento entrò il segretario che conosceva Umberto, il quale chiese alle due insegnanti come andavano le cose. Quelle gli raccontarono quanto era avvenuto e che ora la situazione si era “normalizzata”. Il segretario, mentre gli raccontavano il fatto, diede, in giro per l’aula, uno sguardo minaccioso che cercai di non incrociare voltandomi da un’altra parte. Gli esami iniziarono interrogando gli alunni del primo superiore e, così a seguire, sarebbero stati interrogati quelli del secondo e per ultimi quelli del terzo. Mi resi subito conto che, con quel criterio, si trattava per me di stare in quella trappola per almeno tre o quattro ore Un tormentone insopportabile!…. Non l’avrei retto! In quella situazione di estremo pericolo, scattarono i meccanismi infallibili dell’istinto di sopravvivenza, moltiplicando le mie energie “creative”.
Appena fu chiamato il secondo alunno, alzai la mano. L’insegnante mi rivolse uno sguardo seccato e mi chiese cosa volessi. Dissi il “mio” nome e con glaciale “faccia’ e ‘mpigna” sparai una palla ad alzo zero: “ Sono uno studente pendolare; viaggio quotidianamente da Petilia Policastro e, se debbo aspettare il mio turno, rischio di perdere l’autobus per rientrare a casa .Chiedo pertanto di poter sostenere subito l’esame”. All’insegnante la cosa sembrò ragionevole, per cui mi rispose che, ultimata l’interrogazione in corso, avrebbe chiamato me . Dopo una decina di minuti ,finita quella interrogazione, l’insegnante disse: “Venga il ragazzo che viaggia che ha chiesto di fare subito l’esame.” Mi alzai con un groppo in gola e, per farmi coraggio, mi misi a canticchiare “Magic moments”(veramente il momento non aveva niente di magico) la famosa canzone di Perry Como. Appena arrivato alla cattedra, la prima cosa che fece l’insegnante fu quella di prendere il “mio compito” scritto di due giorni prima. Micidiali sciabolate del lapis bicolore avevano trasformato quel foglio scritto in un disegno picassiano del periodo “blu”.Era questo il colore prevalente con qualche lieve “pennellata” di rosso. “Figlio mio hai fatto un disastro”, attaccò l’insegnante.
Trovatomi sulla scena, l’ansia che mi attanagliava il petto finchè stavo seduto nel banco, svanì di colpo. Divenni sicuro ,entrai nella parte con naturalezza, replicando che quel giorno la pessima “performance” (oggi si dice così) era dovuta alle mie cattive condizioni di salute: avevo fatto l’esame con un febbrone addosso. La signora continuò criticando la scarsa consistenza del programma presentato, ma io ormai ero scatenato. Non c’era domanda o altro che riuscisse a mettermi in imbarazzo. Anche a questa osservazione ,infatti, risposi prontamente con sicurezza, toccando le corde del patetismo: la mia famiglia non aveva i mezzi per mandarmi a scuola di inglese ; mi ero dovuto preparare da solo con l’aiuto di mio padre. La versione era coerente con la sottoscrizione del programma presentato da Umberto in cui si evidenziava la “preparazione paterna”. Figurarsi il povero padre di Umberto, modesto archivista che dava lezioni di inglese! Dopo questi preliminari, la signora mi disse:”Vediamo un po’ come leggi”. Mi diede un brano che lessi molto bene, con grande disinvoltura. Notai subito un lieve moto di compiaciuta meraviglia sul volto di quella donna la quale, visto che leggevo con scioltezza ,senza il minimo inciampo, (avevo un maestro di pronunzia di eccezione:Frank Sinatra) mi interruppe dicendo”Va bene così! Passiamo alla traduzione! Cominciò a sottopormi delle frasi. Appena mi diede la prima frase, la mia risposta fu rapida e precisa; passò ad un’altra frase: tradussi con la rapidità del lampo. A quel punto, la professoressa cominciò a guardarmi con un’ espressione di imbarazzato stupore. Si sarà chiesta com’era possibile che il ragazzo che stava rispondendo così brillantemente all’interrogazione avesse potuto fare quel disastro all’esame scritto due giorni prima.Non potendo immaginare come stavano le cose, mi disse: “Vedo che ti sei dato da fare in questi due giorni.” Io ero ormai gasatissimo ,gigioneggiavo, facevo lo spiritoso. Gli altri ragazzi che erano nell’aula assistevano attoniti a quello spettacolo, intimamente impauriti in quanto complici involontari di quel pericolosissimo gioco che si stava svolgendo. Sapevano tutto, ma nessuno fiatò nè allora nè dopo.La solidarietà fu assoluta. Mentre tutto stava filando liscio come l’olio,ad un tratto chi ti entra in scena? Il segretario che conosceva Umberto. Entrò nell’aula, si avvicinò alla cattedra, a fianco a me e cominciò a parlare con l’insegnante che mi stava interrogando.Mi guardò fisso negli occhi. Allora non trovai di meglio, per evitare che guardandomi in viso potesse magari insospettirsi, per quella fisionomia sconosciuta (sembra che conoscesse uno per uno tutti gli studenti della scuola),che chinarmi a terra come se dovessi allacciarmi le scarpe e rimasi in quella postura, seguendo con la massima attenzione lo svolgersi del dialogo fra la professoressa e quel rompiscatole, per capire quando stava per concludersi, temendo che l’insegnante non vedendomi più, finito di parlare, potesse apostrofarmi, davanti al segretario con un:” D…… dove sei? Riprendiamo l’interrogazione”. Questo mi terrorizzava. Quando capii che il colloquio stava per finire, mi alzai di botto per farmi ben vedere dalla professoressa,ma per la fretta andai a sbattere addosso al segretario al quale chiesi scusa voltando rapidamente il capo dall’altra parte, per evitare il suo sguardo. Il segretario uscì.L’interrogazione riprese con me che alle varie domande rispondevo a raffica. La signora si complimentò e mi disse che forse c’erano speranze che potessi essere promosso. Uscii dall’aula ,percorsi il corridoio con la velocità di Jesse Owens ,appena fui fuori vidi Umberto che camminava avanti e indietro nervosissimamente, aspirando profonde boccate di fumo ad ogni passo. Quando mi vide, per alcuni secondi nemmeno mi riconobbe. Sembrava stralunato. Ci mettemmo a correre all’impazzata ,per allontanarci il più rapidamente possibile da quella trappola mortale. Il giorno seguente ci rivedemmo e Umberto mi raccontò di aver saputo dai suoi compagni che quel maledetto segretario, dopo poco la fine della mia interrogazione, si era seduto in un banco della classe ed aveva presenziato a tutti gli esami . La disperata presenza di spirito che mi aveva spinto a chiedere di anticipare l’interrogazione mi aveva salvato.
Quindici giorni dopo mi capitò di leggere sul quotidiano “Il Tempo”un articolo di cronaca che riferiva di un episodio analogo a quello di cui ero stato protagonista, svoltosi a Biella, che però era stato scoperto ed il malcapitato era stato espulso, come si diceva allora, da tutte le scuole del regno. Alla fine di giugno “uscirono i quadri” e Umberto fu “ rimandato ad ottobre” in quattro materie. In inglese fu promosso, scongiurando così di essere respinto per la seconda volta consecutiva.
Dopo pochi anni, Umberto,appena trentenne,ritornando in Calabria da Roma, dove si era trasferito con la famiglia, morì in treno. Quel cuore bizzarro, con cui aveva combattuto tanti “round”, anche aspri e pericolosi, e che fino allora avevano visto Umberto sempre vittorioso, forse approfittando di una sua “distrazione”, gli inferse il colpo da KO e vinse il match. La notizia ci lasciò sgomenti, piangemmo l’amico come fosse un fratello. La società di mutuo soccorso non aveva potuto far niente per lui.
Ancora oggi,quando mi si riaffacciano alla mente le immagini di quell’evento ormai lontano, insieme all’orgoglio di essere stato utile ad un amico, un brivido di angosciosa paura mi percorre la schiena per il pericolo còrso e mi piace pensare che, per dirla con il titolo del bellissimo film di Paul Newman proprio di quegli anni, forse “Lassù qualcuno mi ama” o,per meglio dire, “Somebody up there likes me” ,tanto per tenere in caldo le nozioni d’inglese.Non si sa mai!



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