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Il meridionalismo socialista di Francesco De Martino e Giacomo Mancini (1)

di Giuseppe Cacciatore


Chi voglia oggi ricostruire storicamente le linee portanti e significative del meridionalismo socialista della seconda metà del Novecento, non può certo prescindere dal contributo che ad esso diedero personalità come Francesco De Martino e Giacomo Mancini (senza, peraltro trascurare, l'incidenza che sulla definizione di una politica meridionalistica del PSI ebbero personalità come Luigi Cacciatore, sia pur per pochissimi anni, cioè dal 1943 al 1951, e Rodolfo Morandi). Non è certo facile delineare in poche battute la storia esemplare di un uomo come Francesco De Martino. Per me, poi, alla difficoltà della ricostruzione storica (che non è facile mantenere negli opportuni limiti dell'obbiettività interpretativa) si aggiunge il disagio di una non formale commozione che provo dinanzi alla morte di una persona alla quale mi legava una antica consuetudine di rapporti derivante, in primo luogo, dall'affetto sincero che egli nutriva verso il nipote ed il figlio di due suoi vecchi compagni nella lotta per l'affermazione degli ideali socialisti nel nostro paese e nel Mezzogiorno d'Italia. Ed era una consuetudine che vieppiù si consolidava nel corso degli anni, specialmente quando De Martino era oggettivamente restato, e non solo per me, quasi come unico ed ultimo punto di riferimento, a testimoniare, con la sua penna, i suoi discorsi, le sue interviste, il progetto politico dell'unificazione socialista e dell'unità della sinistra italiana. Egli certo si rendeva conto che quel progetto non poteva assumere - in modo particolare dopo la mutazione genetica impressa al PSI dal craxismo degli anni '80 e dopo la scomparsa del PCI - gli stessi profili che egli aveva immaginato sin dalla fine degli anni '40. Ma non per questo aveva, fino agli ultimi giorni, cessato di pensare che, malgrado la realistica presa d'atto della dolorosa diaspora socialista, che fosse ancora plausibile la presenza di una grande forza riformista e socialista quale indispensabile volano per la formazione di una più ampia aggregazione di forze democratiche e progressiste. Egli, anche nella politica, non abbandonava mai il suo abito mentale di storico antidogmatico e antifinalistico e sapeva che dalla storia la parola fine era programmaticamente espulsa. Il socialismo, egli ha spesso sostenuto, può essere, in un'epoca storica, più o meno vittorioso, più o meno presente, ma anche quando sembra eclissarsi non è destinato a scomparire. E non perché sia eterno, ma semplicemente perché continuano ad esser presenti nella realtà storica contemporanea le ragioni della sua esistenza, della sua genesi, della sua capacità di adattarsi al mutamento delle condizioni politiche, sociali ed economiche della realtà.
Francesco De Martino, già affermato professore universitario e autore di libri ancora oggi fondamentali sulla storia della costituzione romana e sulla storia economica di Roma antica, non scelse subito di aderire al Psi nel 1943. Egli, come tanti altri che solo successivamente passarono nelle fila socialiste (Lussu, Lombardi, Foa) si iscrisse al Partito D'Azione che gli sembrò offrire una prospettiva nuova e originale per la costruzione ex-novo degli istituti democratici e delle strutture politiche e sociali dell'Italia uscita dalla catastrofe della guerra e dalla buia parentesi fascista. Quando entrò in crisi il disegno azionista e prevalsero i partiti organizzati e di massa, egli con l'ala sinistra del Partito d'Azione entrò nel PSIUP e venne, l'anno successivo, eletto deputato nelle liste del Fronte popolare. De Martino partecipò in prima linea alla politica meridionalistica del PSI e, in generale, della sinistra italiana tra la fine degli anni '40 e gli inizi degli anni '50. Erano questi gli anni del grande fermento culturale, storiografico e politico, favorito dal formarsi di gruppi di studio e di azione politica proprio a Napoli con le due famose riviste "Nord e Sud" di ispirazione laica e liberal-democratica e "Cronache Meridionali" di ispirazione comunista e socialista. Con Amendola, Chiaromonte, Sereni e Napolitano, da un lato, Luigi Cacciatore, Rodolfo Morandi e Saraceno, dall'altro, De Martino condivise la politica unitaria del meridionalismo di sinistra, partecipando attivamente all'elaborazione delle piattaforme politiche delle Assise Meridionali, alle battaglie parlamentari e sociali per la riforma agraria, ma anche tracciando i primi distinguo rispetto ad una politica meridionalistica troppo curvata sulla strategia gramsciana dell'agrarismo e poco attenta ai problemi della industrializzazione.
Sono troppo note le vicende successive della vita politica di De Martino, perché io debba qui ricordarle nel dettaglio. Mi limito a segnalare il suo progressivo avvicinamento alla linea autonomistica ed antistalinistica di Nenni a partire dal congresso di Venezia del 1957, la sua elezione a vice-segretario del partito nel congresso di Napoli del 1959, la sua elezione a segretario nel 1963, la sua partecipazione ai governi di centro-sinistra come vice-presidente, il suo ritorno alla segreteria del partito nel 1973 e la sua definitiva uscita di scena nel 1976 al famoso congresso del Midas, quando gli venne addebitata la sconfitta elettorale del 1976 (il PSI al 9 per cento) che sarebbe stata causata dalla sua ipotesi di "equilibri più avanzati" nel rapporto tra DC e sinistra unita. De Martino, anche a causa dell'episodio del rapimento del figlio, subito strumentalizzato dai suoi nemici, non fu più protagonista primario della vita politica italiana, e, tuttavia, egli mantenne coerentemente il suo punto di vista unitario e ha costituito, da senatore a vita, un costante punto di riferimento, anche dopo la diaspora dei socialisti italiani, per la ricostituzione di una unitaria forza socialista, democratica e riformista.
Ho ancora negli occhi e nelle orecchie il video che egli volle con grande sforzo e grande generosità (era già prostrato dalla malattia) registrare, quando fu insignito del "Premio Valitutti" per il suo ultimo libro: Socialisti e comunisti nell'Italia repubblicana. In un lungo discorso rivolto essenzialmente alle nuove generazioni egli svolse con semplicità e chiarezza il filo conduttore della sua lunga e coerente scelta politica, che traeva alimento da una originale visione politica e storiografica della sinistra italiana, incentrata su uno sforzo di sintesi unitaria che è, al tempo stesso, chiarificazione ed esaltazione del suo valore politico e chiave di lettura per la sua corretta interpretazione storica. Della storia della sinistra italiana, dunque, De Martino è riuscito ad essere testimone e protagonista. Egli fu ed è restato tenace assertore dell'unità anche nei momenti in cui con Nenni, negli anni '50, si fece paladino dell'autonomia socialista e della critica senza residui allo stalinismo e al comunismo sovietico.
Anche Giacomo Mancini, scomparso nell'aprile del 2002, ha rappresentato, sia pur con modalità diverse, un momento imprescindibile della politica meridionalistica della sinistra democratica italiana e, in particolare, del socialismo riformista. Figlio di uno dei massimi esponenti del socialismo antifascista meridionale, Pietro Mancini (che era stato deputato socialista nel 1921 e nel 1924 e che aveva contribuito alla ricostruzione del partito nell'immediato secondo dopoguerra), Giacomo, forse come pochi altri esponenti del PSI meridionale, seppe costantemente tenere insieme la prospettiva politica generale (ad esempio il grande contributo alla definizione di un autonomo ruolo del socialismo meridionale nel processo di ricostruzione, prima, e nella costruzione, poi, di una presenza non marginale di una piattaforma riformatrice meridionalistica, nei programmi politici ed economici dei primi governi di centro sinistra) con una concreta ed effettiva opera di intervento e di presenza a favore della sua terra calabrese e, in particolare, di Cosenza, specialmente quando, dopo l'emarginazione subita con l'avvento di Craxi, era stato sindaco per nove anni alla testa di una coalizione unitaria democratica e di sinistra. Di Mancini si richiama spesso l'attività svolta come Ministro in vari dicasteri (Mezzogiorno, Lavori Pubblici, Sanità) e si trascura invece il fatto che egli fu un decisivo costruttore della presenza socialista nel Mezzogiorno. Dopo aver partecipato alle azioni partigiane a Roma nel 1944, egli rientra a Cosenza dove fu segretario della federazione fino al 1947 e membro della direzione nazionale del partito. Fu poi segretario regionale a partire dal 1953. Eletto deputato della sua Cosenza nelle fila del fronte popolare nel 1948, fu poi rieletto per ben nove volte. Né è da trascurare ovviamente il ruolo centrale che egli ebbe nella direzione del partito: con la svolta autonomista del 1956 egli fu chiamato da Nenni a dirigere l'organizzazione del partito, di cui diventò prima vicesegretario nel 1969 e poi segretario dal 1970 al 1972.
Egli era senza dubbio alcuno un meridionalista convinto e, forse, su questo aspetto specifico, il suo contributo, rispetto a quello di De Martino, fu più visibile, più concretamente realizzativo, piuttosto che teorico e politico. Proprio per questo, il meridionalismo di Mancini fu più esposto alle contraddizioni e agli errori. Ma erano errori e contraddizioni (una certa spregiudicatezza nella gestione del potere ministeriale) che derivavano dal grande amore per la sua terra e la sua regione. Come accade spesso nella storia dei grandi personaggi che già in vita seppero suscitare grandi amori ma anche odi profondi (è esemplare il vergognoso procedimento giudiziario a cui fu sottoposto per accuse di collusione con la mafia e da cui uscì completamente assolto), Giacomo Mancini è ricordato ancora oggi più per alcuni errori ed alcune sopravvalutazioni (il centro siderurgico di Gioia Tauro e il fallito tentativo di industrializzazione di Lamezia Terme) che per i suoi coraggiosi impegni alla realizzazione di alcune grandi infrastrutture che hanno totalmente trasformato con segno altamente positivo il volto dell'Italia meridionale: la realizzazione dell'Autostrada del Sole che fu fieramente avversata da latifondisti e gruppi di potere democristiani; la fondazione dell'Università della Calabria che è oggi un vero e proprio gioiello urbanistico e scientifico-accademico all'avanguardia in Italia e in Europa; la rivitalizzazione e la rinascita di tanti centri storici calabresi tra cui quello della sua Cosenza diventato oggi un salotto e un cenacolo culturale che viene indicato giustamente ad esempio in tutto il mondo. Della sua attività di ministro dei lavori pubblici spesso si ricorda soltanto l'aspetto, per così dire clientelare (che era certo evidente, ma del quale egli andava giustificandosi, affermando spesso che le popolazioni del Sud avanzavano crediti enormi dallo Stato centralistico), ma si dimentica ad esempio la coraggiosa battaglia che egli ingaggiò, quando, dopo la frana di Agrigento, non esitò a denunciare pubblicamente gli effetti perversi della speculazione edilizia e i legami che essa aveva indotto tra il potere locale democristiano e gli ambienti mafiosi, o quando riuscì a salvare l'Appia antica dagli scempi edilizi, o quando, infine, da ministro della sanità, con una subitanea decisione, fece arrivare in tutta Italia in poco tempo il vaccino Sabin contro la poliomelite, battendosi, anche in questo caso con coraggio e determinazione, contro gli interessi consolidati delle grande case farmaceutiche e della burocrazia romana. Né è possibile dimenticare un altro dei caratteri salienti del suo socialismo: l'ispirazione libertaria che lo portò spesso a polemizzare con il dogmatismo stalinista del PCI e con il centralismo statalista della DC e ad assumere posizioni di coerente difesa (che taluni interpretarono malevolmente come fiancheggiamento) dei diritti giuridici e personali di esponenti dell'autonomia operaia.
Ma, per tornare al meridionalismo socialista e ai suoi processi di trasformazione nelle varie fasi che lo hanno caratterizzato (tra la fine degli anni '40 e la fine degli anni '70), è lo stesso Mancini ad offrirci una plausibile chiave di lettura in una intervista che apparve nel 1977. Egli contesta, innanzitutto, una vulgata storiografica secondo la quale il socialismo meridionale avrebbe manifestato una debolezza strutturale rispetto al socialismo settentrionale. In effetti, osserva giustamente Mancini, il problema dipende anche dal mancato approfondimento storiografico di una tradizione che spesso con superbia è stata contrassegnata dall'etichetta di socialismo degli avvocati e dei notabili, dimenticando quale fondamentale apporto alla storia del socialismo hanno dato figure come Labriola, Salvemini e, in tempi più vicini, Rossi Doria, Cacciatore, De Martino, Mancini padre e figlio. Ma ciò che spesso si è indotti a dimenticare è la qualità e la quantità delle lotte organizzate dai socialisti negli anni della riforma agraria e del Movimento di Rinascita. "All'origine - egli scrive - è un fatto spontaneo, poi interviene un elemento di organizzazione. Sono i contadini poveri che chiedono la terra perché hanno fame, perché non ne possono più. Nelle terre silane, nella provincia di Cosenza, nel marchesato di Crotone, dovunque era vivo il ricordo dell'usurpazione delle terre demaniali da parte dei baroni, i contadini poveri vanno sulla terra, la occupano. I "decreti Gullo" del 44 serviranno a definire giuridicamente una situazione di fatto" (2). Il giudizio storico-politico di Mancini verso questa fase del meridionalismo socialista riesce a cogliere i pregi e i limiti del Movimento di Rinascita, del quale si sottolineano i contenuti e le iniziative, come quelle, ad esempio, dei comitati della terra, dei quali egli giustamente sottolinea il carattere modernamente propositivo e non meramente ribellistico e oppositivo. "Il movimento di rinascita (...) cercò di estendere il raggio della sua azione, allargandola ai temi della vita civile e sociale. Ecco le prime inchieste sul come si vive nei paesi, sulle esigenze sociali di una piccola comunità, sugli acquedotti che mancano, ecc. Veri e propri "cahiers de doléance" che presentammo all'Assise di Pozzuoli del '49. Fu una grande scuola di presenza democratica. Scavammo in profondità, tanto da poter resistere negli anni della repressione scelbiana" (3). Ma Mancini individua con giustezza anche i primi elementi di crisi nel movimento contadino, specialmente quando non seppe rispondere efficacemente all'offensiva riformatrice dei governi democristiani, come dimostra l'esempio della legge Sila e poi quello della istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Si trattò di una crisi che certamente dipendeva dai limiti oggettivi di comprensione dei processi di trasformazione dell'assetto capitalistico italiano (veniva accentuandosi in quegli anni il fenomeno dello spopolamento delle campagne a seguito della urbanizzazione e della massiccia emigrazione nelle aree industriali del nord), ma anche dal prodursi delle prime serie incrinature nel rapporto unitario tra socialisti e comunisti. La stessa scelta della maggioranza del PSI verso posizioni sempre più chiaramente antistalinistiche ed autonomistiche doveva oggettivamente incidere sui rapporti politici interni alla sinistra e si accompagnava ad una analisi della questione meridionale in cui iniziavano ad emergere i temi peculiari del meridionalismo socialista degli anni '60 e '70: l'industrializzazione e la nazionalizzazione dell'energia elettrica. E' appunto in questa cruciale fase, nel momento cioè in cui i socialisti iniziano ad elaborare una loro proposta autonoma di politica meridionalistica, che si profila sempre più la capacità non solo propositiva ma anche organizzativa di Giacomo Mancini. Se si legge, ancora una volta, ciò che egli dichiara nella intervista del 1977, non si può fare a meno di sottolineare l'orgogliosa rivendicazione del meridionalismo socialista, ma, insieme ad essa, vi è anche una lucida e consapevole analisi che sembra voler proiettarsi per molti aspetti sugli anni a noi più vicini della storia del PSI. Così non si può certo pensare - egli afferma - che l'esperienza del centro-sinistra possa essere considerata come mera operazione di potere e di sottogoverno, dimenticando ciò che di grandemente positivo fu avviato in termini di modernizzazione e di sviluppo industriale del Mezzogiorno. Ma ciò non toglie che sia lo stesso protagonista forse maggiore del nuovo corso socialista nell'Italia meridionale a segnalare, con lucidità, la stridente contraddizione tra l'originaria e vittoriosa operazione di rilancio del partito socialista nelle terre del sud e il suo progressivo attenuarsi in concomitanza con il processo di mutazione delle sue basi sociali e ideali. "Muta la sostanza e l'ancoraggio del partito. Il supporto non ne sono più le lotte popolari e contadine. Adesso si parla d'altro, affluiscono nuovi ceti, talora privi di una loro specifica tradizione culturale ed ideologica. L'entrata nel governo accresce la presenza di elementi spuri. L'unificazione con i socialdemocratici aggrava le difficoltà, le commistioni. Il partito, anche culturalmente e ideologicamente, smarrisce il bandolo della matassa. Tutto questo è più grave nel sud, che non è una terra di virtù, ma di vizi antichi. L'ho già detto altre volte, provateci a venire a Cosenza e a impostare una politica socialista in una città le cui uniche aziende sono la Cassa di Risparmio e l'Ospedale. E' quel che alcuni compagni dovrebbero capire quando rivolgono critiche anche serrate a presunte degenerazioni clientelari del socialismo meridionale. E tuttavia come spiegare il fatto che in Calabria, su 150 comuni ci sono 48 sindaci socialisti? Solo colle clientele? O con una storia e una tradizione ben più complessa? Ben vengano lo studio e la documentazione di questa realtà, purché non si confonda lo studio con le banalità e l'imparaticcio dei rotocalchi"(4) .
Mancini, fino alla fine, è restato fedele alla sua ispirazione politica di socialista democratico riformista, geloso custode, in accese e aperte polemiche con i comunisti, dell'autonomia del suo partito. Egli aveva capito, certo più del generoso De Martino, e comunque con lucida anticipazione, che il PCI era pronto al compromesso storico e che non avrebbe avuto bisogno, in questa operazione, della mediazione e del lasciapassare dei socialisti che rischiavano, in tal modo, di restare schiacciati nella morsa dei due grandi partiti. Per questo favorì l'ascesa di Craxi, anche se, come De Martino, anche lui sarebbe stato ben presto emarginato nella vita del partito. Ma è proprio sul terreno del meridionalismo o meglio del nuovo meridionalismo socialista inaugurato con la stagione del centro-sinistra, che Mancini mostrò la sua efficace strategia politica, tutta imperniata su un modello innovativo di sviluppo industriale e infrastrutturale, ma anche con la consapevolezza di affiancare a questa strategia una riforma (talvolta fin troppo radicale e foriera di guasti non secondari prodotti nel tessuto del vecchio partito socialista) del tradizionale modo d'essere del socialismo meridionale, ancora legato ai tradizionali schemi delle lotte agrarie e del ribellismo massimalista. Quel che è certo è che già prima di Craxi, Mancini aveva saputo elaborare una strategia di competizione con la DC che trovò proprio nel sud il suo laboratorio privilegiato.
De Martino, quello degli inizi della sua azione politica nelle fila socialiste, e Mancini, quello degli anni '70, possono essere indicati a designare il punto d'avvio e quello finale della lunga traiettoria del meridionalismo socialista. Ma questa articolazione temporale non deve essere intesa troppo schematicamente, cioè, come pure qualcuno ha sostenuto, nel senso del passaggio dallo schema gramsciano della riforma agraria e dell'unità tra contadini e operai alla elaborazione di una ipotesi basata sulla industrializzazione e sulla programmazione economica. E' vero, come De Martino scrisse in alcune pagine dedicate a Luigi Cacciatore, che negli anni immediatamente successivi al dopoguerra "non avevamo tempo per le discussioni e le polemiche teoriche tra socialisti e comunisti sul leninismo e la democrazia, né ricercavamo in una diversa dottrina le ragioni dell'esistenza dei due partiti"(5) . E, tuttavia, anche nelle lotte unitarie per il mezzogiorno i socialisti erano in grado di introdurre forti elementi di originalità, smentendo così coloro che hanno giudicato inesistente o succube dei comunisti la loro politica meridionalistica. "Chi ha scritto che in quegli anni vi fu il massimo appiattimento dei socialisti sui comunisti, dimostra di non aver compreso l'entità dello scontro di classe che allora impegnò l'intero movimento operaio e di non essere in grado di apprezzare il valore della partecipazione socialista alle lotte di allora. Certo le vicende degli ultimi quindici anni [De Martino scrive queste pagine nel 1979] hanno contribuito a porre nell'ombra la presenza socialista nelle aspre lotte sociali e politiche che furono combattute dal 1948 in poi. Ma ad esse si deve se il partito socialista, nonostante la sua travagliata vicenda, abbia conservato le sue caratteristiche tradizionali, sebbene una parte delle forze che ad esso si richiamavano sia stata via via assorbita dal partito comunista"(6) . Erano affermazioni che derivavano, per così dire, da un impegno non accademico e astratto, ma direttamente speso sul campo. Così non a caso troviamo De Martino tra i protagonisti del meridionalismo socialista della fine degli anni '40, come ad esempio nella organizzazione e nella elaborazione programmatica delle Assise meridionali della Rinascita della cui segreteria organizzativa egli era membro. Fu, osserva De Martino, la grande stagione delle lotte agrarie e dei movimenti di massa guidati dal Comitato per la Rinascita del Mezzogiorno a imporre la questione meridionale e a farla diventare questione nazionale. "I tempi erano duri, lo scontro aspro non solo nel Mezzogiorno. I primi anni del centrismo furono costellati da violenze e persecuzioni che ebbero luogo in tutta l'Italia (...). Il clima generale era fortemente peggiorato [soprattutto a causa della guerra fredda] e in esso gli scontri tra polizia e dimostranti (...) costarono molte vittime. Non si potevano avere dubbi sul nostro posto nella battaglia. Naturalmente vi erano anche errori; vi fu una sottovalutazione delle responsabilità di Stalin nell'aggravarsi della tensione internazionale. Oggi possiamo dire che fu merito di tutti l'aver evitato di giungere ad oltrepassare i limiti estremi, che avrebbero infranto la convivenza democratica e fatto precipitare il paese nella guerra civile"(7) .
Quanto fosse coinvolgente e meditato questo impegno meridionalistico si può desumere anche dall'intervento che proprio sul Mezzogiorno De Martino tenne al congresso socialista di Firenze nel 1949. Qui egli si schierò con le posizioni della sinistra socialista vicina a Basso e nel suo discorso congressuale pose con forza i problemi del mezzogiorno, specialmente quando segnalò con lungimiranza la situazione di degrado dell'agricoltura e la sua subordinazione al mercato e allo sviluppo industriale interno e internazionale. Egli concluse con un forte richiamo alla necessità della politica unitaria, "tendente a imporre il problema del mezzogiorno come il problema fondamentale della democrazia in Italia"(8) . E, ancora, in un libro del 1983, De Martino sosteneva la validità e l'importanza della partecipazione socialista al "Movimento di Rinascita". "In quel periodo il problema principale del partito socialista (...) era di porre radici profonde nelle masse popolari in modo organico e questo non poteva avvenire, se non rafforzando la sua presenza negli organismi di massa (...). Così fu in specie nell'Italia meridionale, dove il nuovo corso del partito ne trasformò la fisionomia e cancellò le vecchie caratteristiche clientelari e dove la partecipazione al Movimento di Rinascita del Mezzogiorno rese ben visibile la presenza socialista, che altrimenti si sarebbe limitata solo alle competizioni elettorali" ....(9)
Ma come ho detto innanzi, la posizione socialista sulla questione meridionale doveva ben presto evolversi verso linee più adeguate ai processi politici ed economici in atto nel paese a partire dalla metà degli anni '50, quando le tesi morandiane si erano imposte in buona parte del partito e quando in modo consapevole iniziò a frasi strada (come dimostra l'esperienza della SVIMEZ) una linea di politica economico- industriale che si allontanava in modo significativo dall'agrarismo di impronta comunista. "Morandi - scrive De Martino - aveva veduto, a differenza di molti altri, che il termine fondamentale della trasformazione della società italiana era la perequazione economica fra Nord e Sud e che tale fine non si poteva raggiungere senza un forte sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno. Egli quindi avversava l'opinione che il problema meridionale fosse agrario e non industriale ed era convinto che solo considerando il problema agrario come un aspetto del più generale problema di sviluppo dell'economia e puntando decisamente all'industrializzazione sarebbe stato possibile sul serio superare l'arretratezza del Mezzogiorno"(10) .
Con l'approvazione della cassa del Mezzogiorno e l'intervento del capitalismo di Stato nel mezzogiorno, anche la prospettiva del meridionalismo socialista tende a mutare, imboccando una via che guarda sempre più con maggiore attenzione ai problemi delle riforme infrastrutturali, ai problemi dell'industrializzazione governata da una programmazione economica democratica, ai problemi del governo regolato del territorio e dell'espansione urbanistica. Saranno poi gli anni del centro sinistra o, almeno come io penso, del primo centro sinistra a rendere protagonista la presenza socialista nel Mezzogiorno, come si è visto prima a proposito di Mancini. De Martino, pur in una posizione ormai defilata, non mancò però - quasi a suggellare con un suo giudizio storico politico sugli anni '80 la nuova questione meridionale - di far sentire il suo parere. In uno scritto del 1991, pervaso da un lucido pessimismo analitico ma, al tempo stesso, ispirato dal mai dimesso ottimismo della prospettiva etica e politica, De Martino coglieva acutamente la radicale trasformazione del vecchio blocco sociale industriale-agrario in un nuovo blocco di esclusivo ed escludente potere, in cui prevale la forza della massa urbanizzata, sempre più amorfa e incontrollata, sempre più preda delle sue pulsioni e dei suoi bisogni primari insoddisfatti, sempre più abbandonata al clientelismo politico e ai poteri diffusi della criminalità. "Vi sono città, come Napoli, diventate metropoli smisurate in cui si addensa una massa oscillante, inquieta, scontenta, che va una volta da una parte e una volta dall'altra. Non so se si possa configurare l'idea di un blocco urbano, ma comunque sia, la sinistra deve fare i conti, anche se è divisa e differenziata, con questa realtà e non può curarla con il clientelismo di nuovo tipo. Deve avere la sua visione del problema e il modo in cui sostenere una proposta politica coerente per una modifica della situazione obiettiva". Dinanzi alla disgregazione sociale, ai fenomeni impressionanti della dilagante disoccupazione, al diffondersi della criminalità, la diagnosi di De Martino diventa impietosa, fino a cogliere una enorme distanza tra i comportamenti politici della sinistra e i problemi reali del Mezzogiorno. E, tuttavia, il grande senso storico del politico e dell'intellettuale consente di intravedere le grandi trasformazioni (allora appena all'avvio) introdotte dalla svolta del 1989 e i radicali sommovimenti introdotti nella morfologia e nella struttura stessa del sistema politico italiano. "La storia una cosa ce la insegna (...), cioè che vi sono avvenimenti imprevisti e quasi improvvisi, che cambiano il corso della storia stessa quando nessuno se lo aspettava. Io sono uno di quelli che crede che questi avvenimenti possano esserci anche per l'Italia (...). Il mio ottimismo nasce dalla convinzione che poi alla fine, nonostante le grandi difficoltà del presente, vi saranno cambiamenti politici improvvisi [si ricordi che queste affermazioni risalgono all'ottobre del 1988], che permetteranno di affrontare con idee nuove la questione meridionale, traendola fuori dal letargo in cui sembra caduta"(11) .
De Martino, e per molti versi anche Mancini, appartiene, per parafrasare il titolo di un suo libro del 1983 (che resta, a mio avviso, uno dei contributi migliori offerti alla comprensione della storia del socialismo italiano del secolo scorso almeno fino alla soglia degli anni '70) a un'epoca del socialismo. "La data del 1976 - egli scrive - è quella scelta per la fine della ricerca, perché essa mi sembra realmente il momento finale di un'epoca. Si può discutere di tale data, come di qualsiasi altra divisione cronologica, che ha in sé qualcosa di soggettivo e di arbitrario. Ma il socialismo italiano dopo quella data è molto diverso da quello del periodo precedente"(12) . Si può dire che, oltre a un'epoca del socialismo si sia consumata anche un'epoca del meridionalismo? Anche su questo delicato tema - che è al tempo stesso storiografico e politico - resta a mio parere feconda la lezione tracciata da Francesco De Martino. Basta rileggere quel lungo e approfondito saggio del 1987 dedicato proprio a Gramsci e la questione meridionale. In esso De Martino non solo efficacemente sintetizza il lungo percorso della questione meridionale e il ruolo che in essa ha avuto il socialismo italiano a partire dalla fine degli anni '40, ma traccia anche un percorso di plausibile riutilizzazione di alcuni suoi significativi contenuti. "Un tempo l'aspetto sociale più rilevante era la grande massa dei contadini poveri. Oggi è la crescente disoccupazione di massa che supera tutti i tollerabili livelli. Sotto la spinta del progresso tecnico l'impiego del lavoro in attività produttive si riduce. Nell'epoca dei satelliti e dei computer la constatazione è desolante e potrebbe condurre allo sconforto (...) Mancanza di lavoro e accrescimento dei servizi pubblici e privati divengono un freno all'espansione produttiva, al retto funzionamento dello Stato e dell'Amministrazione pubblica, producono un incremento delle spese parassitarie, un incentivo alla diffusione della criminalità (...). La verità è che senza un piano di sviluppo che possa contare su di un impegno delle forze produttive, industriali, sindacati, tecnici, senza una politica nazionale coerente con il fine di superare gli squilibri, senza una programmazione degna del nome, che non si sminuzzi in mille rivoli e che non freni alcuna iniziativa nel Sud, coltiveremo nuove illusioni. Il compito è arduo. Si tratta di trasformare una società divenuta in massima parte urbana, in una società economicamente attiva, di porre fine ai servizi inutili, per far sorgere quelli socialmente utili, creare le strutture produttive necessarie e nello stesso tempo elevare il tono dell'amministrazione locale, del ceto politico che la dirige e controlla, combattendo quelle pratiche invalse nel Mezzogiorno che contribuiscono a favorire affarismo e clientelismo ed a frenare le forze di progresso"(13).
Credo che sia giusto chiedersi se, dinanzi ad una diffusa tendenza politologica e storiografica che, negli ultimi decenni, ha considerato datato e inefficace il quadro concettuale e strumentale del meridionalismo storico, sia corretto riproporre, sia pur necessariamente corretti, alcuni elementi caratterizzanti della tradizione meridionalistica, ma non per imbalsamarli e idolatrarli, ma calandoli coerentemente in una dimensione mediterranea ed europea. Il che non significa, naturalmente, che non si debba tener conto dei radicali cambiamenti sociali ed economici, delle innovazioni tecnologiche, del riequilibrio interno delle regioni meridionali, dei nuovi strumenti di programmazione, della ridislocazione di risorse e di fonti produttive, del sorgere di tante cosiddette inedite soggettività meridionali. Il problema, piuttosto, è quello di capire se i nuovi strumenti interpretativi e le nuove dinamiche d'azione proposte siano la conferma di una linea, che io chiamerei "funeraria", che dichiara morta la questione meridionale, dal momento che da questione locale e nazionale è diventata questione europea, nel migliore dei casi, o mondial-globale. Ovvero se la necessità del riproporsi - specialmente dinanzi al quadro inquietante e pericoloso della devolution leghista approdata in Parlamento - della questione meridionale nel contesto non solo dell'unità nazionale, ma anche in quello dell'integrazione europea, possa ancora servire per la elaborazione di strumenti di analisi e di azione, proprio nella consapevolezza che sono lungi dall'esser risolti i gravissimi problemi di squilibrio tra Nord e Sud.
C'è un punto che a me pare incontrovertibile nell'analisi del dibattito attuale, ed è il "grande buco nero" della politica nel Mezzogiorno, almeno a partire dai primi anni '90 del secolo scorso. Mi riferisco, salve le dovute eccezioni, ad un deficit clamoroso di ricerca storica e sociologica, alla scomparsa, cioè, di quel nesso tra politica e cultura che, nel bene e nel male (e io sono tra coloro che ritengono che il bilancio debba pendere sul positivo più che sul negativo), ha costituito il tratto forte del meridionalismo storico italiano. Si dovrà indubbiamente, come già per molti versi si è fatto, oltrepassare il mero enunciato, su cui forse troppo si è passivamente insistito, della questione meridionale come questione nazionale e, dunque, si dovranno costruire analisi e progetti che sappiano cogliere ancor di più la centralità dei sistemi locali, il ruolo delle nuove soggettività, l'importanza dei nuovi strumenti di autonomo sviluppo territoriale, la responsabilità diretta degli istituti di autogoverno, imprenditoriali e istituzionali. Ma tutto ciò non deve indurre a ritenere obsoleti - ameno che non si voglia annegare anche il meridionalismo nella ormai insopportabile palude di un riformismo diventato parola vuota e disinvoltamente interscambiabile tra destra e sinistra - alcuni saldi elementi di riferimento troppo presto relegati nella soffitta delle cose inutili e polverose. Quali che siano stati - ed è indubbio che vi siano stati e che abbiano negativamente pesato - gli effetti perversi del blocco sociale e di potere innescato dalle politiche centralistiche della spesa pubblica, è tuttavia innegabile che alla crisi del vecchio sistema non si è sostituito nulla sul piano di una rinnovata strategia meridionalista della sinistra italiana, fino al punto che la discussione politica, economica e culturale è progressivamente scomparsa dall'agenda programmatica del più grande partito della coalizione dell'Ulivo e, quel che è peggio, il disinvolto silenzio sulle differenziazioni intervenute all'interno del Mezzogiorno, la grave mancanza di ogni capacità di selezione nella indicazione delle priorità nell'impostazione della politica economica, hanno costituito il sintomo più evidente e preoccupante del progressivo stemperarsi (per non dire cancellarsi) di una visione storica unitaria della questione meridionale".
Non c'è chi non veda che l'attuale livello di discussione e di proposta sul problema meridionale (basi vedere da un lato i documenti programmatici del centro- sinistra e, dall'altro, i concreti contenuti delle leggi finanziarie del centro-destra) ha assunto un valore meramente quantitativo (ammesso che anche la dimensione quantitativa degli impegni di spesa sia da ritenere soddisfacente), perdendo di vista la qualità sia dei contenuti sia dei metodi. Mi pare del tutto visibile il fatto che si è bloccato ogni processo (anche quelli timidamente avviati dai governi di centro- sinistra) di valorizzazione delle risorse, dei saperi e dei poteri locali (per non parlare poi dell'attacco gravissimo, in termini di soldi e di provvedimenti legislativi, a ciò che da sempre è stato considerato un possibile volano per la qualità dello sviluppo meridionale, cioè la ricerca, la formazione e l'università) e che si affacci sempre più il pericolo reale della riproposizione di un metodo verticale e discrezionale nella gestione delle risorse e degli incentivi.

Bisogna allora arrendersi all'inevitabile? Ritenere morta e sepolta la questione meridionale? La mia risposta non può che essere negativa, specialmente in una fase come l'attuale, in cui si profilano concreti attacchi all'unità stessa del paese, con le gravissime conseguenze che sullo squilibrio tra Nord e Sud possono avere le norme anticostituzionali e antisolidaristiche previste nel progetto di devoluzione. Bisogna allora porre con forza e con convinzione il ruolo del Mezzogiorno (dei Mezzogiorni) in Europa; un ruolo che non può essere letto, come pure qualche autorevole commentatore sostiene a destra come a sinistra, come una mera richiesta di assistenzialismo, o come una riproposizione riduttiva della politica dei fondi di investimento. Si tratta di ben altro: della necessità di mantenere aperta la relazione tra Europa e Mezzogiorno, proprio puntando su quelle capacità e su quelle potenzialità locali di sviluppo economico che hanno bisogno di più formazione, più cultura, più ricerca, sapendo bene che l'emarginazione del Mezzogiorno dal contesto europeo significherebbe un fatale impoverimento per l'Europa stessa.
E' questa una visione eccessivamente ottimistica? Può darsi. Ma si tratta di quell'ottimismo razionale e realistico, intriso di senso della storicità determinata, che deriva proprio dalla grande lezione politica e morale di Francesco De Martino.
Riprendo qui le parti essenziali di una conferenza commemorativa tenuta il 19 dicembre 2002 nel salone della Amministrazione provinciale di Salerno e organizzata dalla Costituente socialista salernitana.

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Note:

(1) Riprendo qui le parti essenziali di una conferenza commemorativa tenuta il 19 dicembre 2002 nel salone della Amministrazione provinciale di Salerno e organizzata dalla Costituente socialista salernitana.

(2) G. MANCINI, Intervista in G. MUGHINI, Il Mezzogiorno negli anni della Repubblica, Nuova serie dei quaderni di Mondoperaio, Roma, 1977, p. 229.

(3) G. MANCINI, ivi, p. 231.

(4) G. MANCINI, ivi, pp.233-234.

(5) Cf. F. DE MARTINO, Prefazione a G. CACCIATORE, La sinistra socialista nel dopoguerra. Meridionalismo e politica unitaria in Luigi Cacciatore, Bari, 1979, p.10.

(6) Ivi, p. 11.

(7) Da una intervista a Francesco De Martino in E. CORSI, Francesco De Martino. Una teoria per il socialismo, Napoli, 1987, p.28. Per una visione d'insieme dell'opera e del pensiero di De Martino cf. gli atti delle giornate in suo onore (29-30 maggio 1997): Dal passato al futuro del socialismo. Testimonianze sull'esperienza umana e politica di Francesco De Martino, Roma, 1998.

(8) Cf. F. PEDONE, Il PSI nei suoi congressi, vol. V, Milano, 1968, p.261.

(9) Cf. F. DE MARTINO, Un'epoca del socialismo, Firenze, 1983, pp. 146 e ss.

(10) Cf. F. DE MARTINO, Morandi e la rinascita del Mezzogiorno, in "Cronache Meridionali", II, 1955, pp. 815 e ss.

(11) Questa e la precedente citazione sono tratte dall'intervento di F. De Martino in AA.VV., La sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-1954). Giornate di studio in onore di Francesco De Martino, Firenze, 1991, pp. 123-124.

(12) Cf. F. DE MARTINO, Un'epoca del socialismo, cit., p.2.

(13)Cf. F. DE MARTINO, Socialisti e comunisti nell'Italia repubblicana, a cura di C. Giorgi, presentazione di G. Arfé, Firenze, 2000, pp. 120 e ss.



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