Debbo partire da un paio di confessioni, che recito senza alcun pentimento e contrizione. Sono
sempre più indifferente verso quanti, volontariamente o meno, alimentano luoghi comuni ed
approssimazioni. Non tollero la filosofia dei gazzettieri e delle gazzette, non perché non sia
rispettoso dal ruolo dei giornali, proprio per il contrario. Sono orgoglioso di avere in tasca una
tessera di giornalista e mi piace scrivere sui giornali. E però sono convinto che i giornali devono
aiutare a capire il gran pubblico dei non addetti ai lavori e ciò per svolgere il ruolo determinante
della formazione dell’opinione pubblica, in forme corrette, vale a dire senza sollecitazioni e
solleticazione delle fonti, giacché questo è proprio il modo per non rispettare i lettori, non aiutarli a
formarsi un’opinione e, al contrario, imporgliela. Il che è scorretto, prima ancora di essere
antidemocratico e antiliberale, giacchè è la forma di violenza più subdola, vergognosa, vigliacca: la
violenza della parola. Le discussioni filosofiche devono essere fatte nella sede propria, lì cioè dove,
anche in presenza di opinioni e valutazioni contrastanti, si sappiano due cose indispensabili per un
dibattito serio, scientifico, rigoroso (e la filosofia è una scienza, una cosa rigorosa e dovrebbe essere
una cosa seria):
a) sapere ciò di cui si parla, il significato delle parole che si adoperano;
b) conoscere le regole del discorso, così che non si possa barare o cambiar le carte in
tavola. Ciò non si può e non si deve pretendere dai giornali quotidiani, che hanno altre
regole e altre funzioni.
Aggiungo un’altra confessione, questa volta contrito e pronto a scusarmi, giacchè cedo a un
gusto demimondano che ho tante volte contestato: voglio avanzare anche io qualche
osservazione sul fare cultura a Napoli. E per non cedere del tutto al cattivo gusto delle
elucubrazioni astratte, nelle quali molto è lasciato sottinteso e all’ammiccamento tra
addottrinati, mi riferisco a un paio di casi concreti, caduti a Napoli qualche anno fa (in modo da
non fare dispiacere a nessuno, tanto i più avranno perfino dimenticato). Un primo caso è quello
di una improvvisa fiammata polemica, scoppiata non ricordo più come e svoltasi invero
innocuamente, se non avesse arrecato i danni che arrecano le filosofie delle gazzette. Si trattò di
un gruppo di articoli sulle fortune (per qualcuno indigeste) dello storicismo a Napoli, un
documento risibile, se non fosse pietoso, di parlottìo insulso. La più parte degli interlocutori usò
la parola storicismo senza sapere che cosa significhi nella sua lunga storia, due volte secolare.
Non hanno definito il significato della parola che adoperavano e così l’hanno trasformata nel
proprio oggetto del desiderio: ciò che avrebbero voluto che fosse; ciò che vorrebbero che fosse
la cultura a Napoli: una specie di teatrino dei piccoli, dove chiunque possa improvvisare qualche
rappresentazione che ne soddisfi la vanità e l’egocentrismo. Così è capitato anche di sentire
l’elogio del rifiuto della figura del falso dio, che sarebbe la storia, l’inno alla resistenza alla
sacra voracità del divenire, che sarebbe lo storicismo, senza sapere (e senza pensare) che questa
è la posizione del più integralistico conservatorismo (se è ancora vero che il rifiuto dell’evento
significa immobilismo), del più rigoroso antilaicismo (se è ancora vero che laicismo significa
capacità di rispettare e capire per giudicare ciò che accade). E ciò a parte l’erroneità delle
identificazioni dello storicismo. Ma quanti degli interlocutori sapevano che non esiste uno
storicismo, ma gli storicismi? Ed ecco perché l’amico Cacciatore dovette combattere una
battaglia impossibile, in quanto costretto ad incrociare le armi (si fa per dire, perché ciò che ho
visto in giro erano poco meno che spadini di latta) con innocenti catafratti, come sono tutti
quelli che non sanno quel che toccano o di cui parlano.
La lunga premessa non è un fuor d’opera e mi riporta al tema: la cultura napoletana. Ma
anche qui devo partire da una precisazione, che copre una insofferenza del tipo di quelle
denunciate iniziando. Ma che significa cultura napoletana? E la domanda vale per qualsiasi altra
cultura. Come si fa a caratterizzarla senza ridurla ad un tipico asettico, asfittico, inservibile,
insomma un’altra proiezione del proprio desiderio? Che cosa è Napoli: un luogo geografico, un
luogo dell’anima o che altro? E poi “Napoli” (e richiamo l’attenzione sull’uso delle virgolette) è
una città antichissima, una delle più vecchie d’Europa, dentro cui sono passati uomini di diverse
razze e civiltà; è una città che per la più parte della sua storia ha svolto il ruolo di capitale di
Stati autonomi. E’ possibile, con qualche tratto di penna, dirne quale è la cultura, senza
specificare, senza distinguere, senza precisare? Ciò non vuol negare la possibilità di definire
qualche tendenza che assicuri elementi di continuità, ma questa è cosa ben diversa da ipotizzare
una “napoletanità” perenne, ovvero concepire la lunga e frastagliata storia di “Napoli” come un
blocco storico immobile, o, quanto meno, soggetto alla lenta evoluzione di un nucleo
extrastorico, naturalistico o spiritualistico che sia. Ma andiamo avanti, con buona volontà e
mettendo tra parentesi la storia e gli studi storici.
La cultura di Napoli è “aperta” o “chiusa”? S’è domandato qualcuno. Napoli è divisa in
“caste”, ha osservato qualche altro, anche se io non ho capito che cosa intende per caste
l’osservatore. Qualche altro volenteroso interlocutore, rammaricandosi d’essere stato preceduto
nella ripetizione stagionale dei suddetti luoghi comuni, s’è subito preoccupato per l’oppressione
che una classe dirigente inamovibile esercita sulla città, per di più senza avere la capacità di
comunicare i risultati della propria creazione scientifica e culturale. Non è mancato,
naturalmente, chi ha subito rintracciato in questi ritornanti luoghi comuni gli elementi della
preziosa provocazione, anche se non si capisce bene per far che. Tanto meno è stato assente
l’invito ad una discussione generale tra tutti (chi?), come se il problema della cultura, della
creazione e diffusione della cultura in una città sia quello di discutere e non di fare, ovvero
come se fosse possibile, nell’ambito della ricerca culturale, stabilire regole e modi di
comportamenti, da seguire scrupolosamente.
E subito si impone un interrogativo? Ma perché queste cose si sentono solo a Napoli e su
Napoli? Il discorso si fa più complesso e, forse, serve un po’ di attenzione, anche se qui bisogna
cadere nelle semplificazioni lamentate e detestate. Ma tant’è. Di certo la storia di Napoli mostra,
a partire dal cinque-seicento, un processo di emarginazione politica ed economica, che ha
provocato un singolare e complesso fenomeno di dissociazione socio-culturale, quasi
antropologico-culturale. Per dirla in grosso, a Napoli è mancata la rivoluzione borghese, nel
senso che si è anchilosata la distinzione sociale tra aristocrazia e plebe. E’ diventata difficile
l’identificazione di che cosa fosse il “popolo”, talvolta, e fino a Pagano ed oltre, identificato
confusamente con ciò che sta in mezzo tra il lazzaronismo sociale della plebe e il lazzaronismo
morale della nobiltà. Così che non è mancata una borghesia alla ricerca di sé, ma è mancato lo
spirito della borghesia, l’etica del capitalismo con la sua ascesi intramondana, per dirla con
Weber.
Nel 1799, vale a dire in un momento importante per una inversione di tendenza, Vincenzo
Cuoco ha in qualche modo riassunto tutto ciò e ne ha fornito la chiave interpretativa. La
“nazione napoletana” è divisa in due popoli, diversi per due gradi di clima e due secoli di storia,
nonostante che essi convivano e dividano lo stesso tempo e lo stesso luogo. (Chi sa se chi ha
parlato di “caste” conosceva questa diagnosi cuochiana e pensava di riassumerla o aggiornarla.
Ai posteri l’ardua sentenza). La drammatica dissociazione ha comportato un duplice fenomeno:
la parcellizzazione sociale della città e l’esercizio della supplenza da parte di qualcuna di queste
due parti per colmare i vuoti di potere, l’auctoritas (che proviene da augere). La mancanza d’un
etica di classe, di processi di collettivizzazione dell’azione (e uso l’espressione senza
riferimento a specifici processi di concettualizzazione) ha favorito quei settori dove gli elementi
individualistici sono determinanti, o, almeno più forti. Così la cultura si è sempre più sviluppata
come un elemento forte, in grado di supplire a tanto e a tanti. Chi, pur essendo una persona
colta, non partecipa dei processi di produzione della cultura, ha visto in tutto questo
un’autoreferenzialità e non ha visto quanta comunicazione e capacità e disponibilità di
confronto è in quei processi e li alimenta e ne è alimentato, così come in tutti i più diversi
processi di produzione culturale.
Da tutto ciò derivano alcuni fenomeni ricorrenti, ma ormai davvero stucchevoli,
insopportabili. Chi viene a Napoli è quasi sempre ispirato, consapevolmente o meno, da un
complesso di missionario o di colonizzatore, tanto più se viene a Napoli senza veramente
inserirsi in una delle sue strutture di ricerca. Il bello è che viene accolto come un missionario o
un colonizzatore buono, che deve garantire quanto non c’è. Però, ignaro della insospettata
riservatezza del “napoletano” (uso anche io un tipo), incapace di capire la rapidità con cui la
versatilità del napoletano si trasforma in cinismo, non si accorge di essere egli osservato,
scrutato, esaminato. Non capisce che la pronta accoglienza s’è già trasformata in giudizio, che
ha scoperto presunzioni, incapacità, disponibilità all’affabulazione e non all’azione. Non si
avvede che è stato isolato. Ed allora non sa di trovare altro che chiusura, senza capire che si
tratta di rigetto, d’essere stato respinto. Quel che poteva essere recepito, lo è stato prontamente
ed è stato metabolizzato e il poveretto s’accorge che può essere inglobato, perché non ha saputo
trasformare. Ma il problema è che non si tratta di trasformare (e perché mai dovrebbe essere
trasformata Napoli e non Milano e non Parigi?), bensì di lavorare insieme, caso mai per colmare
le deficienze strutturali che, per le ragioni sopra accennate, vi sono a Napoli e rendono qui più
difficile, meno conosciuto, meno comunicabile ciò che viene fatto, il che altrove avviene con
grande facilità, perché esistono adeguate strutture: case editrici ben ramificate, centri produttivi
economici con i propri centri decisionali, coraggio d’impresa e non egoismo produttivo.
Mi sembrano questi gli elementi da tenere presente quando si voglia davvero parlare della
cultura di Napoli, della cultura a Napoli. Se non altro si otterrà il risultato di innovare le
formule, caso mai per sostituire a quelli consunti, insopportabili, altri stereotipi. E sarà sempre
un vantaggio. E scenderò in un caso concreto relativo all’ultimo decennio di vita napoletana.
Negli ultimi mesi s’è riacceso, come capita con ritmo periodico, il dibattito sulla cultura a
Napoli, coinvolgendo il cosiddetto “rinascimento” bassoliniano (e sull’uso di questa formula,
che non ho mai sentito pronunciare da Bassolino, ritornerò). Desidero affrontare anche io questo
tema, con un discorso un po’ più articolato di quanto consenta la necessaria scorrevolezza della
prosa giornalistica. Ma vi torno dopo aver confessato ancora una volta (e mi scuso per questa
ennesima confessione) che non sono interessato dallo stabilire quanti grammi o quanti chili di
arte contemporanea Bassolino ha favorito che sbarcassero a Napoli. In proposito penso che
Bassolino abbia fatto bene a promuovere queste iniziative, non tutte dello stesso livello, come è
naturale e non tutte da me condivise, fino al punto che un “intellettuale” di quelli scostumati,
pur se innocuamente -infatti la scostumatezza, come sanno tutti, è un modo scelto da alcuni per
stare sull’onda del successo effimero, che piace a chi non bada alle cose che possono restare- mi
ha definito una volta, insieme ad Antonio Guarino, come soggetto dedito al “teppismo
culturale” proprio perché avevo criticato una di queste iniziative. Dirò di più: Bassolino farebbe
bene a promuovere e realizzare la costituzione di un museo di arte contemporanea a Napoli.
Torno da Barcellona e, ancora una volta, sono rimasto ammirato per il Museo che hanno lì
realizzato, con un ardito intervento edilizio ed urbanistico, che non ha esitato ad intervenire in
un quartiere storico di Barcellona, a ridosso delle storiche Ramblas (e chi sa che succederebbe,
se una cosa del genere si facesse a Napoli, chi sa quante grida ascolteremmo dai famuli di “Italia
loro”!). Ma, ripeto la confessione, ciò mi interessa poco o niente, rispetto ad altri profili di
questo ritornante dibattito, che rischia di avvitarsi su se stesso e di non far capire niente della
realtà bassoliniana di Napoli, salvo a far conoscere le elucubrazioni dei dialoganti dibattenti. Io
sono interessato ad altro e mi trovo qui a dirlo, forse, apparentemente, partendo da lontano (che
è poi un lontano assai relativo).
Sembra incredibile, tanto da poter perfino essere apprezzata, la tenacia di certi
“intellettuali” di sinistra nel perseguire, come se nulla fosse accaduto, la scelta riduttiva che ha
condannato al fallimento (come non era giusto) il marxismo e (come era giusto) il comunismo. A
cosa alludo? Ad una riduzione e ad una semplificazione colpevoli, che hanno caratterizzato la
storia del marxismo e del comunismo nel nostro secondo Novecento. La riduzione è quella che ha
reciso, a partire dagli anni Sessanta, almeno in Italia, le radici storicistiche del marxismo che a
Marx venivano dalla critica alla Scuola storica e allo hegelismo. In tal modo il marxismo
diventava ( o doveva diventare, per aderire alla cultura democratica internazionale, europea ed
americana tra le due guerre) una specie o sottospecie dello strutturalismo, col suo deciso
antistoricismo e antiumanismo, con il suo privilegiamento della logica dell’astratto rispetto alla
logica del concreto. Nascevano allora elucubrazioni e formule del tipo “la struttura senza
soggetto”, lo “Stato forma”, la “formazione sociale”quale individuazione della categoria
economica dominante, e via di questo passo. In tal modo il marxismo perdeva la forza di filosofia
metodologica della storia, la sua capacità di interpretazione, unilaterale quanto si voglia ma pur
sempre acuta, della crisi del principio di autorità nella società moderna e delle sue forme di
produzione economico-sociali. Perdeva la sua caratteristica fondante, ossia la capacità
dell’indagine rigorosa della realtà sociale. La semplificazione è la sovrapposizione e quasi
identificazione del marxismo con il comunismo, ossia una ideologia che sottrae l’interpretazione
di una qualsivoglia realtà storica alla responsabilità del soggetto individuale e l’affida al soggetto
collettivo. Il che significa aprire la strada ad un totalitarismo impietoso, negatore di ogni libertà e
di ogni limite sociale. Significa trasferire il soggetto di imputazione delle disfunzioni sociali da
concretissimi soggetti responsabili ad un soggetto astratto, anonimo, che non è sempre facile
individuare con conseguente difficoltà a definire l’imputazione rigorosa delle responsabilità. Il
che, sia detto tra parentesi, è anche un modo per favorire il qualunquismo purtroppo allignante in
tante parti della nostra popolazione, un qualunquismo che la vecchia DC e il vecchio PCI (quelli
migliori) emarginarono ma non riuscirono ad estirpare, come mostra il ritornante successo di quel
costume, che oggi è addirittura il sostegno principale del governo del Paese, che lo esprime e lo
sollecita (lo mostrano le esternazioni del Presidente del Consiglio, troppo ingenuamente
scambiate per gaffes). Non che le scelte operate dal neo- marxismo strutturalistico non siano state
suggestive. Al contrario, lo sono state tanto da suggestionare intellettuali impegnati e giovani
illusi. Infatti, in base alla logica dell’astratto, ritenuta la sola logica scientifica, si poteva e si può
interpretare tutto, infallibilmente, per la semplice ragione che la conseguenzialità dell’astratto non
conosce incertezze e dubbi perché non conosce quelli che Vico chiamava gli incommoda della
vita, gli anfractuosa vitae. In altre parole, anziché partire dalle cose (ricordando con Labriola che
“le idee non cascano dal cielo”, e costano grande “sforzo”, un pesante “lavoro”), si parte dal
concetto col quale le cose devono essere spiegate e al quale devono essere coerenti, perché se così
non è sono le cose ad essere sbagliate e non i concetti adoperati.
Poteva mancare l’applicazione di tutto ciò a Napoli, la Napoli che Pasolini un po’
romanticamente prediligeva perché caratterizzata, secondo lui, dalla sopravvivenza di un popolo
che resisteva all’omologazione, anche se, forse, ed il dubbio è atroce, quel popolo era soltanto la
plebe, uno dei “due popoli” diversi per “gradi di clima” e “secoli di storia” pur se conviventi, alla
cui drammatica frattura Vincenzo Cuoco riportava la causa del fallimento della rivoluzione
democratica del 1799? Così facendo e dicendo si salta a piè pari quella che è, forse e senza forse,
una interpretazione non ancora superata della storia di Napoli (e probabilmente di tutto il
Mezzogiorno), che indica la necessità della sutura o, quanto meno, del governo di entrambi i “due
popoli” la chiave di volta di una effettiva modernizzazione di Napoli e del Mezzogiorno.
Certamente l’applicazione di tutto ciò a Napoli non poteva mancare e non è mancata. La
favorisce Antonio Bassolino. Bassolino non è marxista e non è stato comunista? Ed allora come
poteva- nel momento in cui ha abbandonato la rozza interpretazione della dialettica di Hegel
secondo cui il male diventa sempre bene, che, secondo alcuni, Marx avrebbe accolto- non
realizzare la “mutazione” genetica di Napoli, in modo che questa diventasse, come sembra,
secondo alcuni, che sia diventata, piccolo borghese, normale e normalizzata?
Un impertinente come chi scrive avrebbe voglia di dire, volesse il cielo che Napoli sia
diventata borghese e normale. Purtroppo non è così e non è così proprio perché sopravvive e s’è
consolidata, antropologicamente, culturalmente, socialmente, economicamente, la frattura tra i
“due popoli” cuochiani. Certo a Napoli è mancata la rivoluzione borghese, lo spirito della
borghesia. Ma questa è una delle ragioni che ha marginalizzato Napoli nel mondo moderno e nella
società contemporanea. Questa deficienza ha capito Bassolino marxisticamente, ossia seguendo
l’idea del marxismo come storicismo, e in base a questa difficile e lucida interpretazione socio-
economica, ha cercato di traghettare Napoli nel mondo post-industriale, dovendo scavalcare il non
vissuto mondo industriale. Ecco, a mio giudizio, e semplificando, la vera questione di Napoli,
altro che “addio Napoli, sopraffatta dalla borghesia”! E allora, il “rinascimento”?
Sono convinto che, se proprio bisogna cedere al simbolismo delle formule, per Bassolino
il “rinascimento” di Napoli andava e vada inteso nel senso della ripresa del processo di
modernizzazione e sviluppo, per varie ragioni incagliato, non certo nel senso retorico di certo
manierismo culturale, che rischiava, come rischia, d’essere soltanto il corteggio rivolto a
imbellettare l’anacronistica immagine del mecenate demiurgico. Ciò, di certo, non è mancato a
Napoli e ha consentito elucubrazioni sociologiche prive di fondamento storico e storicizzante.
Non è mancata l’autoreferenzialità (un vizio antico e diffuso dell’intellettualità) nel collocarsi nel
cono di luce del deus ex machina. Non è mancato lo scambio tra produzione di cultura e
diffusione della cultura con conseguente appannamento dell’immagine della prima (per sua natura
poco incline al gusto per la pubblicità) a vantaggio della seconda. E via di questo passo. Tutto ciò
s’è riassunto nella formula, in sé un po’ risibile, di “rinascimento” napoletano, che non riguarda
tanto il progetto di Bassolino quanto l’accreditamento dei caudatari. C’è, dunque, da meravigliarsi
se qualche indagine sociologica ha concluso parlando per la Napoli degli anni novanta di cultura
senza élite?
Il discorso a me sembra un altro, che porterebbe a domandarsi come è possibile cercare
élites (ammesso che questa tipologia non sia indebolita in un mondo a rapida trasformazione
tumultuosa e sempre più globalizzato, che impone altri processi di concettualizzazione) in un’età
di pluralismi culturali e di multiculturalità, in un periodo storico che vede la crisi delle forme
associative otto-novecentesche (quelle che davano luogo ad élites) ed è alla ricerca di nuovi livelli
strutturali, per altro a Napoli pericolosamente assenti, ed è un grave problema.
Io sono convinto che di tutto ciò Bassolino ha avuto ed ha acuta percezione, collocandosi
un po’ al di sopra e fuori del mandarinesco “rinascimento” napoletano. Il suo fu ed è un progetto
di modernizzazione e sviluppo democratico, che, con scaltrezza politica, s’è servito anche dei
corifei del “rinascimento”. Non altro.
Non presumo di avere ricette sicure né interpretative, né programmatiche e ancor meno
di avere trovato “la verità” di un discorso complesso. Sono però convinto che, impostando il
discorso lontano dalle formule gergali di una cultura tramontante, sia possibile capire qualcosa di
Napoli, purché si sappia mettere da canto, fosse pure per poco, la vanità e la “boria” dei dotti.
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*Senatore della Repubblica
Già Rettore dell'Università di Napoli Federico II