Da qualche anno, grazie anche al grande contributo offerto dalla giunta Chiaravalloti, sono in molti a
chiedersi se c’è ancora un futuro per questa regione.Se tanti si sono ormai rassegnati, non pochi
continuano a pensare, a dibattere, a cercare le strade per costruire un progetto credibile e vincente per
la Calabria, un progetto in grado di entusiasmare e mobilitare diversi soggetti sociali, di indicare un
orizzonte per cui valga la pena di spendere le proprie energie.
1.1. I nodi strutturali delle Calabrie: l’eredità del ‘900
a) Il far west delle Calabrie
b) la redistribuzione settoriale e spaziale delle attività produttive
c) il grande impatto: dai mercati locali al mercato mondiale
1.2 Per la costruzione di un futuro sostenibile e desiderabile
Dalla storia contemporanea della Calabria non se ne ricavano grandi speranze. Dopo un secolo di
ribellioni, di rivolte, di occupazione dei latifondi, negli anni ’70 del secolo scorso, si è spenta ogni
forma di lotta sociale in Calabria (ad eccezione di sporadiche fiammate degli studenti medi ed
universitari), ed i calabresi sono stati più capaci di adattarsi ai poteri -interni ed esterni- che si sono
succeduti nel tempo, che a ribellarsi, più capaci di trovare soluzioni individuali per rispondere ai propri
bisogni che di alzare la testa e, soprattutto, di pensare con la propria testa.
Sullo sfondo, anche se ancora pochi lo percepiscono, resta il bisogno di un grande progetto comune di
società, di civiltà, che dia una speranza concreta a chi vive e vuole restare in questa terra. Un bisogno
di identità collettiva e dignità del vivere e lavorare in Calabria. Anzi nelle Calabrie. Credo che
dovremmo mantenere la storica distinzione tra la Calabria Citeriore e quella Ultra, perché le differenze
storiche e culturali tra le due aree permangono, malgrado l’appartenenza ad un'unica istituzione
regionale. Nel prendere coscienza delle diversità, nel non negarle, potremmo ritrovare le ragioni per un
cammino comune .
Per non costruire l’ennesimo elenco delle cose da fare, non possiamo non fare i conti con la Storia,
con il suo peso, la sua vischiosità, le sue “onde lunghe”, come le chiamava Fernand Braudel. Non si
tratta infatti di costruire l’ennesimo programma elettorale, di pensare che basti un cambio di colore
politico perché il governo della Calabria risponda ai bisogni vecchi e nuovi. Nell’agenda politica del
centro-destra quanto del centro-sinistra, sono molti i punti comuni, la visione del mondo, la pratica
quotidiana della politica come Ta-Tec: tattica e tecnica della gestione dell’esistente. La svolta, se ci
sarà un giorno in questa terra, passa attraverso un cambiamento di prospettive, di orizzonti, di visione
della vita e presa di coscienza, nonché della costruzione sociale di un’identità collettiva.
Il secolo appena trascorso ha fatto registrare profondi cambiamenti e stravolgimenti su tutto il
pianeta. Ovviamente queste profonde modificazioni sono state più o meno profonde a seconda
delle condizioni di partenza e dell’impatto che le singole aree hanno avuto con il mercato
mondiale e con gli stati nazionali. Per i calabresi il ‘900 ha certamente significato un
cambiamento epocale , a livello di attività lavorative, insediamenti umani, stili di vita ed identità
locali. Molte di queste trasformazioni hanno prodotto dei nodi strutturali, delle contraddizioni con
cui dovremo fare i conti anche nel prossimo futuro.
Per tentare di tracciare un quadro sintetico di questi cambiamenti di lungo periodo, proviamo a
servirci di carte tematiche, che fotografano le Calabrie all’inizio ed alla fine del ‘900. Lo faremo
relativamente a tre aree tematiche: a)la distribuzione spaziale della popolazione; b)la
distribuzione spaziale e la qualità delle attività produttive ; c)l’impatto con il mercato mondiale.
Se immaginiamo di sovrapporre le carte della distribuzione territoriale della popolazione, all’inizio ed
alla fine del ‘900, con una colorazione in base alla densità di popolazione nei singoli comuni (per es.
con una colorazione in rosso a diversi gradi di intensità) scopriamo che tutte le aree interne della
Calabria -ad eccezione del comprensorio di Cosenza e di alcuni pezzi della Calabria Citeriore- si sono
scolorite. Dal Pollino all’Aspromonte, passando per le Serre e la Sila, il tasso di spopolamento varia
dal 50 fino al 90%. Anche nelle fasce pedemontane dello Jonio e del Tirreno, si registra una caduta
verticale della popolazione. Se fosse una lastra ai raggi x applicata ad un corpo vivente, potremmo dire
che la spina dorsale della Calabria si è decisamente decalcificata, il quadro clinico è quello di una
persona anziana con la schiena letteralmente a pezzi, che non riesce più a stare in piedi.
I calabresi erano un popolo di pastori, contadini e braccianti, che hanno vissuto per più di un
millennio in una terra circondata dal mare, senza sapere che cosa farsene di questo liquido salato. Quei
pochi siti marini che hanno resistito alle invasioni -come Reggio,Crotone,Scilla-Bagnara e Pizzo- non
sono mai diventati delle città marinare, dei luoghi rilevanti dello scambio commerciale e dei rapporti
con l’esterno. Questa è una caratteristica della Calabria che la differenzia dalle altre regioni
meridionali bagnate dal mar Mediterraneo. Dal mare i calabresi non si aspettavano niente di buono e
l’hanno evitato per secoli. Improvvisamente nel ‘900, soprattutto nella seconda metà del secolo, sono
corsi verso le aree costiere ed hanno usato questi territori come i pastori fanno di un pascolo abusivo:
prendi più che puoi perché del domani non v’è certezza. La corsa verso il mare è stato il nostro far
west: la conquista di centinaia di chilometri di coste incontaminate, la cementificazione caotica e
scriteriata, la rapina dei siti più belli che erano rimasti vergini per millenni.
Ma, il ‘900 segna anche, attraverso importanti opere di bonifica, la riconquista della pianura,
abbandonate in gran parte fin dalla caduta dell’impero romano. Quelle che per secoli erano lande
acquitrinose, fonte perenne di malaria, sono diventate terre fertili e ricche di agrumi, grano, pescheti,
ecc. Anche queste zone sono diventate, lentamente, degli attrattori della popolazione che viveva nelle
aree collinari e montane, contribuendo, indirettamente, ad un ulteriore svuotamento delle aree interne.
Sovrapponendo le carte delle attività produttive, agli inizi e fine secolo, ed immaginando di dare
colori diversi ai diversi settori (per es. il verde quando prevalgono le attività agricole, il rosso per
l’industria , il marrone per il terziario privato, il giallo per la pubblica amministrazione), scopriamo che
il cambiamento registratosi nelle Calabrie è stato davvero radicale. Se le Calabrie del ‘900 erano
tinteggiate quasi unicamente in verde e rosso (agricoltura ed industria), oggi prevalgono il marrone ed
il giallo (terziario privato e pubblica amministrazione). Si può dire che siamo di fronte ad un
mutamento che si è registrato in tutto il mondo occidentale -esiste persino una legge economica , la
legge di Clark , che correla questo mutamento intersettoriale alla crescita economica - , ma le Calabrie
hanno fatto registrare un mutamento specifico che non si riscontra, ad esempio, in altre regioni d’Italia,
esclusa forse la Sardegna. Agli inizi del secolo scorso l’80% della popolazione era impegnata in
attività agricole e protoindustriali. Nelle aree interne erano particolarmente diffuse le attività
semindustriali ed artigianali ed i pochi centri urbani superiori ai 10.000 abitanti vivano in gran parte
delle risorse di queste zone interne. Meno del 10% della popolazione occupata era assorbita dalla
pubblica amministrazione, e poco più di questa percentuale nelle attività del terziario
privato(commercio e trasporti soprattutto). Alla fine del secolo il quadro è rovesciato: quasi il 34%
degli occupati è assorbito dalla pubblica amministrazione e quasi il 40% dal terziario privato. Le
attività agricole, se si fa eccezione della piana di Sibari e parzialmente di Gioia Tauro e Lametia, sono
attività residuali che prevalgono nelle aree interne solo perché gli altri settori sono scomparsi e non
sono state create altre attività . Quando si parla tanto oggi di valorizzazione delle risorse locali spesso
di dimentica che queste attività erano fiorenti e diffuse in tutto il territorio delle Calabrie. Chi potrebbe
immaginare che un paese come Platì, noto alla cronaca nera per il degrado sociale e l’organizzazione
criminale, ha avuto fino agli anni’60 del secolo scorso, ben tre fabbriche, malgrado la carenza di
infrastrutture e di capitali? E gli esempi possono essere tanti e ci dicono tutti una sola cosa: la vecchia
Calabria non era solo una terra povera basata sul latifondo ed un’agricoltura di sussistenza, ma era
anche una terra ricca di saperi e valori, di attività produttive collegate con le risorse locali. Tutto
questo è stato distrutto dal modello di sviluppo capitalistico prevalente. Per diverse ragioni, che non
possiamo qui esporre, il sistema produttivo calabrese è andato in frantumi nel ‘900, trascinando con sé
una serie di legami sociali, di saperi accumulati nei secoli, di gestione sapiente del territorio. Certo le
condizioni materiali di vita della gran parte della popolazione erano dure quanto i rapporti sociali di
produzione che erano rimasti semifeudali. Ma, il nuovo che è nato dal disfacimento del vecchio
sistema di potere, è stato determinato, da una parte, dalla fuga di quasi 2 milioni di calabresi, dall’altra
dai trasferimenti dello Stato. Il risultato è quello che conosciamo tutti: al sistema di potere
dell’aristocrazia del latifondo è subentrato quello della borghesia criminale e della borghesia di stato
(classe politica e dirigenti pubblici). Ed alla fine del secolo le nuove generazioni hanno ripreso ad
emigrare, come agli inizi del ‘900 quando non vedevano più un futuro dignitoso in questa terra.
A partire dalla seconda metà del ‘900 le Calabrie sono state investite da un processo di apertura al
mercato mondiale che ha modificato profondamente il modello di vita delle popolazioni. La
specificità di questa regione consiste nell’accelerazione che ha avuto il processo di apertura
all’esterno. Agli inizi del ‘900 la gran parte delle Calabrie viveva delle sue risorse , con scarsi
flussi di import-export, con la prevalenza di mercati locali basati dai meccanismi e riti sociali del
dono/reciprocità, tirare sul prezzo, rispetto ed amicizia strumentale. Lo stato nazionale ha avuto il
ruolo propulsore nel processo di modernizzazione/apertura/omologazione del territorio calabrese.
Attraverso la costruzione di strade, scuole, distribuzione di energia elettrica, in un ventennio il
territorio calabrese si è aperto, fisicamente e culturalmente, all’esterno con vantaggi e svantaggi
noti. Basti pensare che ancora nel 1951 il 65% della popolazione era priva di un titolo di studio, la
gran parte dei comuni, specie nelle aree interne, era priva di corrente elettrica, le vie di
comunicazione tra le Calabrie erano tortuose ed i mezzi di comunicazione lenti ed inadeguati alla
mobilità territoriale, ad eccezione dei treni che collegavano la costa con l’interno (oggi scomparsi).
In un lasso di tempo relativamente breve là dove -come scriveva Corrado Alvaro- non si conosceva
l’uso della ruota sono arrivati le auto, gli elettrodomestici, e tutti i beni della società dei consumi. I
calabresi sono entrati velocemente nel processo di occidentalizzazione, senza riuscire a creare una
risposta, una mediazione tra locale e globale. Come abbiamo visto le strutture produttive locali
sono crollate, i mercati locali sono diventati mercati marginali, e la bilancia commerciale della
Calabria ha cominciato ad andare in rosso, con una crescente importazione di tutte le merci
dall’esterno a fronte di una caduta dell’export nei settori tradizionali. Basti pensare che la bilancia
agroalimentare calabrese era ancora attiva nel 1951 ed oggi oltre l’80% di quello che i calabresi
mangiano lo importano dall’esterno. La debole risposta locale ha favorito un processo di
mercificazione selvaggio, che ha divorato il patrimonio naturale e culturale, che ha relegato questa
terra al rango di regione assistita (il 30% del pil dipende dai trasferimenti esterni).
Globalizzazione, economia di rapina ed economia criminale si sono intrecciati provocando un
degrado crescente che ha inciso, in vario modo, sull’insieme del territorio calabrese.
Per affrontare e tentare di risolvere i nodi strutturali delle Calabrie dobbiamo, innanzitutto,
abbandonare il paradigma dello sviluppo, così come è stato finora concepito e perseguito. Significa
abbandonare l’idea che bastino più investimenti, più risorse economiche per risolvere i problemi delle
Calabrie, che la crescita economica di per sé porti a maggiore benessere per tutti, che la felicità e
l’identità di una popolazione si possano quantificare in base al tasso di crescita del Pil. Compito non
facile. Tutti pensano che per combattere la disoccupazione bisogna effettuare più investimenti, non
importa quali né con quale prospettiva ed utilità sociale, basta che si spendano più soldi. Eppure, i dati
di questi ultimi decenni ci parlano chiaramente. La crescita del Pil calabrese si è accompagnata alla
crescita della disoccupazione: abbiamo triplicato il tasso di disoccupazione nella seconda metà del
‘900. La crescita economica lungi dal risolvere il problema della criminalità organizzata si è intrecciata
fortemente con questo fenomeno, dando vita ad uno specifico modello di via criminale
all’accumulazione capitalistica. I grandi investimenti, dalle grandi dighe interminabili alle grandi
industrie nate decotte, hanno provocato più danni ambientali e sociali che benessere per i destinatari.
Viviamo, infatti, in una regione dove “la macerie dello sviluppo”-come le chiama Serge Latouche-
sono ben visibili in tutto il territorio.
Ed è proprio da questa visione -dalle macerie dello sviluppo- che dovremmo ripartire immaginando
un programma di ricostruzione, come si fa dopo un terremoto catastrofico. Proviamo a farlo, anche in
base alle esperienze maturate nella conduzione del Parco Nazionale dell’Aspromonte, indicando
sinteticamente i punti nodali che vanno affrontati, i metodi d’intervento, i principi che ispirano questa
strategia di ricostruzione:
- La salvaguardia dei beni comuni
Dall’acqua alle foreste, dalle tradizioni popolari alle strade, dai paesaggi agrari ai sistemi costieri,
bisogna realizzare piani di recupero e salvaguardia di questi beni collettivi. L’abbandono, da una
parte, ed i processi di privatizzazione, dall’altra, stanno intaccando seriamente il nostro patrimonio
collettivo che è fatto di risorse naturali, di cultura popolare, di saperi tradizionali, di paesaggi naturali.
Un patrimonio inestimabile per la collettività che ne determina la qualità della vita e l’identità. Per
essere efficace e credibile un piano di salvaguardia e ricostruzione di questi beni comuni deve fare i
conti con la macchina amministrativa reale e con l’aggressività dei processi di privatizzazione in atto.
Dobbiamo immaginare un rapporto con i nostri beni collettivi come quello che si era storicamente
determinato con gli “usi civici”, un istituto prezioso che ha preservato ambienti ed economie locali per
secoli. Ovviamente, essendo entrati nel terzo millennio dobbiamo fare i conti con i processi di
modernizzazione, con le distorsioni che Stato e Mercato hanno prodotto rispetto all’uso dei beni della
collettività. Per questo è importante che vadano coinvolti e valorizzati quei soggetti sociali che da anni
si muovono in questa direzione. Penso, ad esempio, alle decine di gruppi ed associazioni che lavorano
sul recupero della memoria storica, dai canti alla musica popolare alle forme tradizionale
dell’artigianato. Penso ancora alle associazioni ambientaliste ed ai centri di ricerca delle Università che
lavorano sui temi relativi alla salvaguardia dei beni architettonici, storici, ambientali, paesaggistici ecc.
Con questi soggetti va costruita una mappa ed una strategia di recupero di questa parte rilevante del
nostro patrimonio collettivo.
- La manutenzione del patrimonio collettivo
In Calabria è più facile costruire nuove strade che mantenere decentemente quelle esistenti. Così come
è stato più facile impiantare nuovi ospedali che fare funzionare quelli esistenti. La situazione, negli
ultimi decenni, soprattutto nella Calabria Ulteriore è diventata insostenibile. Stesso discorso vale per il
nostro patrimonio forestale. E’ più facile ottenere fondi comunitari per impiantare alberi, magari di
essenze estranee al territorio, che realizzare un piano di salvaguardia di questo grande patrimonio che
fa della Calabria la terza regione d’Italia per superficie boscata.
Una strategia di manutenzione del patrimonio collettivo significa anche garantire alle future
generazioni una qualità della vita e la disponibilità di beni collettivi. In breve: lasciare un patrimonio,
in eredità, vale a dire uno stock di beni, e non un flusso evanescente di reddito.
- La responsabilità sociale
Nell’esperienza fatta come presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte ho potuto sperimentare
un rapporto innovativo tra la sfera pubblica ed il mondo del non-profit che ha dato risultati insperati.
Alla base di questo rapporto c’è quello che abbiamo chiamato i contratti di “responsabilità sociale” che
affidano, sulla base di una libera scelta, una parte del territorio ad associazioni/cooperative ecc. per
raggiungere determinati obiettivi, e che prevedono una parte del rimborso spese in base ai risultati
raggiunti. Così in quattro anni siamo riusciti a debellare la piaga degli incendi con una riduzione del
90% della superficie boscata incendiata rispetto agli anni ’90. Un modello che è diventato un punto di
riferimento per diversi enti locali in Italia (prov. di La Spezia, Protezione civile della Regione Lazio,
Regione Piemonte, ecc.), che ha aperto un dibattito in tutto il paese, ma naturalmente viene ignorato
dall’attuale giunta regionale calabrese. Così, con lo stesso criterio, è stato affrontato il fardello della
raccolta di rifiuti nelle aree pic-nic, nei sentieri, nei boschi più frequentati. Pensiamo che lo stesso
modello della “responsabilità sociale”, che individua chiaramente chi è responsabile e di che cosa e per
quanto tempo, possa essere utilmente esteso ad altri settori, a partire da quello che ritengo sia un diritto
inalienabile: il reddito minimo garantito. Se questo diritto viene garantito associandolo alla
responsabilità sociale su base comunitaria (che sia un quartiere, un borgo, un piccolo paese,ecc.), si
evitano abusi e speculazioni, ma soprattutto si responsabilizzano le comunità locali che individuano le
aree del disagio sociale e si impegnano a contribuire -sia pure in minima parte- al soddisfacimento dei
bisogni dei cittadini economicamente in difficoltà.
- Per il riequilibrio territoriale
Da quanto abbiamo visto il problema dello spopolamento della gran parte delle aree interne delle
Calabrie è diventato una questione vitale per questa regione. Nella Calabria Ulteriore sono ormai una
decina i paesi scomparsi e diverse decine quelli che rischiano di fare la stessa fine. Un patrimonio
storico, culturale, identitario sta andando al macero. Nella pur circoscritta esperienza del Parco
Nazionale dell’Aspromonte abbiamo posto al centro della nostra attività questa questione in quanto,
siamo convinti, che gli equilibri naturali e gli ecosistemi non si salvano senza la presenza delle donne e
degli uomini che vivono ed amano un determinato territorio. In questa direzione abbiamo sperimentato
una strategia di implementazione di attività ad alto valore aggiunto e basso impatto ambientale che si
è fondata sulla localizzazione di corsi e master di alta formazione nelle aree interne dei paesi
dell’Aspromonte. Dopo tre anni di sperimentazione abbiamo dimostrato che questo modello è
realizzabile con una piccola spesa da parte dell’ente pubblico ed un grande ritorno sociale, economico
e culturale per le comunità locali coinvolte. Infatti, dal corso di “giornalismo ambientale” a Cittanova,
al master sulla progettazione per lo sviluppo locale di Bova, al corso di perfezionamento musicale di
Gerace, ai laboratori di scrittura creativa a Polsi , al master in progettazione per le energie rinnovabili a
S. Giorgio Morgeto, sono stati centinaia i giovani provenienti da tutta Italia che sono venuti, pagando,
per migliorare la propria formazione nel territorio del parco dell’Aspromonte. Fondamentale è stato il
rapporto con le Università, i centri di ricerca, le associazioni ambientaliste.
Più difficile, ma non impossibile, è il recupero e la rivitalizzazione dei paesi scomparsi o in via
d’estinzione. In questo campo abbiamo avviato da poco una strategia che tende a offrire, in comodato
d’uso gratuito, case e terrene abbandonati, puntando soprattutto al “bisogno di sud “ che esiste nel
centro-nord del nostro paese. Siamo in attesa di vagliare le proposte che ci arrivano da tutto il paese
per sostenere i progetti di insediamento più interessanti. Molte delle richieste provengono da persone
che vivono nell’Italia del benessere e sono stufi di questo modello di vita e di società. Tra le righe
vorrei aggiungere che va bloccata la tendenza sia a vendere i borghi abbandonati a persone che ci
passeranno al massimo un mese di vacanze, sia a creare i cosiddetti “paesi albergo” nei vecchi borghi,
ultima spiaggia nel becero processo di mercificazione dei nostri luoghi della memoria e dell’identità.
- Una terra di accoglienza e solidarietà
Negli ultimi vent’anni del secolo scorso la Calabria ha sperimentato per la prima volta nella storia
moderna un consistente, anche se ancora minoritario, processo di immigrazione. In molti casi gli
immigrati ed i profughi hanno trovato in Calabria un clima umano più favorevole (come testimoniano
diverse ricerche sul campo) anche se un basso livello salariale e condizioni di lavoro più precarie che
nel centro-nord del paese. Ma, questa regione ha fatto registrare anche un caso esemplare di
accoglienza che ha fatto il giro del mondo. Ci riferiamo a quanto è accaduto a Badolato nel natale del
’97, quando la solita carretta del mare stracarica di profughi kurdi si è arenata di fronte alla marina di
Badolato. Anziché essere ricacciati in mare o mandati in un lager, chiamato centro di accoglienza, i
profughi sono stati ospitati dalla popolazione nelle case vuote del vecchio borgo di Badolato, dove le
case erano state in gran parte abbandonate da tempo. In poco tempo, grazie ad un progetto del Cric,
una ong di cooperazione internazionale, i kurdi sono stati inseriti in una serie di attività produttive e,
soprattutto, è nata la prima forma, almeno per il Mezzogiorno di turismo responsabile. Migliaia di
persone, infatti, sono arrivate da vari paesi europei (grazie alla promozione dell’associazione fraco-
svizzera Longomai) per sostenere questa iniziativa, scegliendo di trascorrere un periodo di vacanza in
questo luogo sconosciuto del profondo sud. L’anno successivo, mentre l’esperienza di Badolato
cominciava a scontrarsi con dinamiche interne speculative, un gruppo di giovani di Riace -il paese dei
Bronzi- si avvicinò con entusiasmo a questa esperienza e decise di imitarla. Con un piccolo prestito
ricevuto da Banca etica , l’associazione “Città futura” ha ristrutturato e reso vivibili una trentina di
case, realizzato un ristorante etnico, un frantoio per la produzione di olio biologico, un laboratorio di
tessitura della ginestra su telai a mano, ecc. Ma, soprattutto, Riace è diventato uno dei pochi luoghi,
forse l’unico in Italia, dove i profughi vengono accolti ed inseriti nella comunità locale con grande
intelligenza e sensibilità. Penso che i calabresi dovrebbero andare orgogliosi di Riace che rappresenta
un faro di civiltà nella notte della repressione dello straniero, del profugo, dell’immigrato extra-
comunitario.