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Serge Latouche, Giustizia senza limiti, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

di Vincenzo Orsomarso


Nel suo ultimo libro Serge Latouche, Giustizia senza limiti, assume ad oggetto di indagine il tema della giustizia nell’epoca della globalizzazione, muovendo dall’espulsione, operata dalla modernità, della morale dalla scienza e dall’economia: un dato che segna strutturalmente la storia più recente dell’umanità. E’ infatti dal XVIII secolo che l’economia si è definitivamente emancipata dalla morale, ha assunto sembianze di pura tecnica sottoposta solo alle leggi di mercato.
Da questo punto di vista la parola d’ordine del laissez- faire è piuttosto eloquente (cfr. p. 34), ed è ciò che dovrebbe consentire la ricerca di quell’interesse egoistico da cui non può che conseguire un benessere collettivo (cfr. p.38). E’ la fiducia nell’automatismo del mercato, quella stessa fiducia che nutre il neoliberismo, ma che si dimostra infondata davanti all’aumento della disoccupazione e dell’esclusione sociale, dell’ineguaglianza, della violenza, della corruzione, della distruzione dell’ambiente.
Di fronte a tale processo anche le proposte più radicali di umanizzazione di una economia di mercato risultano scarsamente incisive in quanto non sono in grado di scalzare in profondità l’immaginario economicistico che domina la modernità (cfr. p. 75), quella razionalità calcolistica che ingloba la società e procede alla sua riorganizzazione secondo la logica dell’efficienza e della mercificazione di ogni ambito vitale.
Un processo accompagnato e sostenuto dalla «colonizzazione delle menti a Nord come a Sud» con una conseguente manipolazione della psiche di masse affascinate dalla macchina di cui sono vittime e di cui diventano addirittura «complici passivi se non attivi» (cfr. p. 106); ingranaggi di una megamacchina che combina «la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la performance tecnica e il potere politico» (cfr. p. 111).
Si tratta quindi di un complesso tecnico-economico-scientifico che «uniforma, sradica e in definitiva distrugge il politico» e «riduce l’uomo moderno a […] “funzionario della tecnica”» ( S. Latouche, La megamacchina, Torino, Bollati Boringhieri 1995, p. 38 ). Un apparato posto in funzione della ragione calcolatrice, dell’ottimizzazione, della redditività e dell’agire, di una razionalità che uniforma i modi di vita, disintegra le identità culturali e si propone di conseguire, quale sua ultima tappa la mercificazione totale del mondo. Quel mondo che, «affascinato o inorridito», ha già assistito alla nascita di tre megamacchine: «la fabbrica fordista [ … ], la macchina da guerra e di sterminio del regime nazista e il socialismo burocratico (cfr. S. Latouche, Giustizia senza limiti, cit. p. 112), intriso, quest’ultimo, di un determinismo che affida alla storia la soluzione delle contraddizioni della società capitalista; anche quando la spinta volontarista sembra segnare il processo di trasformazione, quest’ultimo rimane ingabbiato nelle maglie di una presunta neutralità della scienza e dell’apparato tecnico-produttivo.
Non basta denunciare «la lotta di classe e la proprietà privata dei mezzi di produzione» se «tutto ciò che struttura l’immaginario economico resta al suo posto – la credenza nel progresso, il dominio della natura, il culto della razionalità – l’accumulazione di capitale, lo sfruttamento, l’alienazione e dunque le ineguaglianze e l’ingiustizia si perpetuano [ … ] sotto forme apparentemente modificate» (p. 20).
Oggi «i meccanismi più sottili del mercato mondiale stanno per montare [ … ] i diversi ingranaggi di una nuova megamacchina di dimensioni planetarie: la macchina – universo o tecnocosmo». Tecniche sociali e politiche (dalla persuasione occulta della pubblicità allo stupro delle folle della propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni, tecniche economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si scambiano, si fondono, si completano, si articolano in una vasta rete mondiale messa in opera da ditte transnazionali gigantesche (cfr. p. 112).
Quelle stesse imprese attraverso un’intensa esternalizzazione diventano il nodo centrale di una rete di aziende subappaltatrici che a loro volta utilizzano altre aziende, laboratori clandestini e lavoro vivo (cfr. p. 138), rendendo così impossibile distinguere l’economia normale da quella criminale.
Nonostante lo stato avanzato della mercificazione dell’esistente è possibile reincorporare l’economia nel sociale, ricondurla ad un ruolo subalterno; in questo senso l’obiettivo non è un’economia giusta, ma una società giusta.
Sul terreno pratico Latouche propone una serie di strategie e di strumenti, di cui sottolinea il carattere utopico, ma indispensabili per potersi misurare con lo strapotere dell’economico. Si sofferma, ad esempio, sui Lets (Local exchange trade) o Sel (Systèmes d’échange locale), associazioni i cui membri scambiano fuori mercato, mediante una moneta da loro creata e valida nell’ambito del gruppo, beni e servizi di ogni sorta, analizzandone il funzionamento e prendendo posizione sui diversi problemi connessi, primo fra tutti quello della determinazione del prezzo dei mezzi e dei beni scambiati (cfr. pp. 188-189).
Inoltre Latouche propone una riappropriazione creativa del danaro e un’idea di mercato quale luogo di scambio e di incontro, dove la dimensione del dono è incorporata nel commercio. L’autore fa riferimento alle forme di microcredito di base e di scambio realizzate nella società vernacolare africana.
Allo stesso tempo si schiera decisamente a favore della riduzione del tempo di lavoro e del reddito di cittadinanza che permetterebbe di realizzare «un po’ più di equità nel rapporto salariale», e quindi consentirebbe alla forza lavoro, di sfuggire «all’arbitrio del datore di lavoro e dell’anonimato del meccanismo infernale del mercato». Potrebbe però costituire anche il presupposto ad un cambiamento di mentalità che dovrebbe essere preceduto e accompagnato dalla percezione del lavoro come forma di crescita personale (p. 197).
Ma soprattutto la liberazione, anche graduale e parziale, dal lavoro salariato è ciò che può consentire la costruzione di nuovi spazi pubblici, luoghi per la progettazione collettiva di modalità per il conseguimento di un benessere non distruttivo dell’ambiente e dei legami sociali. Il che renderebbe evidente lo stato di avanzamento di quella sovversione cognitiva che per Latouche è preliminare al sovvertimento politico: la decolonizzazione dell’immaginario collettivo, da sottrarre al dominio della ragione calcolatrice.
Un’impresa ardua considerando il radicamento della stessa nozione di sviluppo nel senso comune, ma il fallimento storico dell’Occidente, testimoniato dai paurosi squilibri sociali, dagli elevati rischi della tecnologia e dalla radicale messa in discussione degli equilibri ambientali, quindi dalla crisi di nozioni quali progresso e sviluppo, può rappresentare la leva su cui agire per costruire relazioni sociali e produttive sottratte alle logiche mercantili. Per pensare un’«altra crescita», anche se il termine per lo studioso francese è «logoro», una crescita «della qualità della vita, degli spazi verdi [ … ] del bene comune» (p. 213).



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