Nel suo ultimo libro Serge Latouche, Giustizia senza limiti, assume ad oggetto di indagine il tema
della giustizia nell’epoca della globalizzazione, muovendo dall’espulsione, operata dalla modernità,
della morale dalla scienza e dall’economia: un dato che segna strutturalmente la storia più recente
dell’umanità. E’ infatti dal XVIII secolo che l’economia si è definitivamente emancipata dalla
morale, ha assunto sembianze di pura tecnica sottoposta solo alle leggi di mercato.
Da questo punto di vista la parola d’ordine del laissez- faire è piuttosto eloquente (cfr. p. 34), ed
è ciò che dovrebbe consentire la ricerca di quell’interesse egoistico da cui non può che conseguire
un benessere collettivo (cfr. p.38). E’ la fiducia nell’automatismo del mercato, quella stessa fiducia
che nutre il neoliberismo, ma che si dimostra infondata davanti all’aumento della disoccupazione e
dell’esclusione sociale, dell’ineguaglianza, della violenza, della corruzione, della distruzione
dell’ambiente.
Di fronte a tale processo anche le proposte più radicali di umanizzazione di una economia di
mercato risultano scarsamente incisive in quanto non sono in grado di scalzare in profondità
l’immaginario economicistico che domina la modernità (cfr. p. 75), quella razionalità calcolistica
che ingloba la società e procede alla sua riorganizzazione secondo la logica dell’efficienza e della
mercificazione di ogni ambito vitale.
Un processo accompagnato e sostenuto dalla «colonizzazione delle menti a Nord come a Sud»
con una conseguente manipolazione della psiche di masse affascinate dalla macchina di cui sono
vittime e di cui diventano addirittura «complici passivi se non attivi» (cfr. p. 106); ingranaggi di una
megamacchina che combina «la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la
performance tecnica e il potere politico» (cfr. p. 111).
Si tratta quindi di un complesso tecnico-economico-scientifico che «uniforma, sradica e in
definitiva distrugge il politico» e «riduce l’uomo moderno a […] “funzionario della tecnica”» ( S.
Latouche, La megamacchina, Torino, Bollati Boringhieri 1995, p. 38 ). Un apparato posto in
funzione della ragione calcolatrice, dell’ottimizzazione, della redditività e dell’agire, di una
razionalità che uniforma i modi di vita, disintegra le identità culturali e si propone di conseguire,
quale sua ultima tappa la mercificazione totale del mondo. Quel mondo che, «affascinato o
inorridito», ha già assistito alla nascita di tre megamacchine: «la fabbrica fordista [ … ], la
macchina da guerra e di sterminio del regime nazista e il socialismo burocratico (cfr. S. Latouche,
Giustizia senza limiti, cit. p. 112), intriso, quest’ultimo, di un determinismo che affida alla storia la
soluzione delle contraddizioni della società capitalista; anche quando la spinta volontarista sembra
segnare il processo di trasformazione, quest’ultimo rimane ingabbiato nelle maglie di una presunta
neutralità della scienza e dell’apparato tecnico-produttivo.
Non basta denunciare «la lotta di classe e la proprietà privata dei mezzi di produzione» se «tutto
ciò che struttura l’immaginario economico resta al suo posto – la credenza nel progresso, il dominio
della natura, il culto della razionalità – l’accumulazione di capitale, lo sfruttamento, l’alienazione e
dunque le ineguaglianze e l’ingiustizia si perpetuano [ … ] sotto forme apparentemente modificate»
(p. 20).
Oggi «i meccanismi più sottili del mercato mondiale stanno per montare [ … ] i diversi ingranaggi
di una nuova megamacchina di dimensioni planetarie: la macchina – universo o tecnocosmo».
Tecniche sociali e politiche (dalla persuasione occulta della pubblicità allo stupro delle folle della
propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni, tecniche
economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si
scambiano, si fondono, si completano, si articolano in una vasta rete mondiale messa in opera da
ditte transnazionali gigantesche (cfr. p. 112).
Quelle stesse imprese attraverso un’intensa esternalizzazione diventano il nodo centrale di una
rete di aziende subappaltatrici che a loro volta utilizzano altre aziende, laboratori clandestini e
lavoro vivo (cfr. p. 138), rendendo così impossibile distinguere l’economia normale da quella
criminale.
Nonostante lo stato avanzato della mercificazione dell’esistente è possibile reincorporare
l’economia nel sociale, ricondurla ad un ruolo subalterno; in questo senso l’obiettivo non è
un’economia giusta, ma una società giusta.
Sul terreno pratico Latouche propone una serie di strategie e di strumenti, di cui sottolinea il
carattere utopico, ma indispensabili per potersi misurare con lo strapotere dell’economico. Si
sofferma, ad esempio, sui Lets (Local exchange trade) o Sel (Systèmes d’échange locale),
associazioni i cui membri scambiano fuori mercato, mediante una moneta da loro creata e valida
nell’ambito del gruppo, beni e servizi di ogni sorta, analizzandone il funzionamento e prendendo
posizione sui diversi problemi connessi, primo fra tutti quello della determinazione del prezzo dei
mezzi e dei beni scambiati (cfr. pp. 188-189).
Inoltre Latouche propone una riappropriazione creativa del danaro e un’idea di mercato quale
luogo di scambio e di incontro, dove la dimensione del dono è incorporata nel commercio. L’autore
fa riferimento alle forme di microcredito di base e di scambio realizzate nella società vernacolare
africana.
Allo stesso tempo si schiera decisamente a favore della riduzione del tempo di lavoro e del reddito
di cittadinanza che permetterebbe di realizzare «un po’ più di equità nel rapporto salariale», e quindi
consentirebbe alla forza lavoro, di sfuggire «all’arbitrio del datore di lavoro e dell’anonimato del
meccanismo infernale del mercato». Potrebbe però costituire anche il presupposto ad un
cambiamento di mentalità che dovrebbe essere preceduto e accompagnato dalla percezione del
lavoro come forma di crescita personale (p. 197).
Ma soprattutto la liberazione, anche graduale e parziale, dal lavoro salariato è ciò che può
consentire la costruzione di nuovi spazi pubblici, luoghi per la progettazione collettiva di modalità
per il conseguimento di un benessere non distruttivo dell’ambiente e dei legami sociali. Il che
renderebbe evidente lo stato di avanzamento di quella sovversione cognitiva che per Latouche è
preliminare al sovvertimento politico: la decolonizzazione dell’immaginario collettivo, da sottrarre
al dominio della ragione calcolatrice.
Un’impresa ardua considerando il radicamento della stessa nozione di sviluppo nel senso comune,
ma il fallimento storico dell’Occidente, testimoniato dai paurosi squilibri sociali, dagli elevati rischi
della tecnologia e dalla radicale messa in discussione degli equilibri ambientali, quindi dalla crisi di
nozioni quali progresso e sviluppo, può rappresentare la leva su cui agire per costruire relazioni
sociali e produttive sottratte alle logiche mercantili. Per pensare un’«altra crescita», anche se il
termine per lo studioso francese è «logoro», una crescita «della qualità della vita, degli spazi verdi [
… ] del bene comune» (p. 213).