Marcello Veneziani è, tra gli intellettuali maggiormente rappresentativi della destra italiana, quello più noto al grande pubblico. Questa notorietà, tuttavia, è stata ed è spesso fonte di critiche non disinteressate, provenienti per lo più dall'interno del medesimo schieramento politico in cui egli milita: non gli si perdonano alcune posizioni teoriche, che hanno accompagnato e assecondato la svolta moderata della destra italiana; di aver prestato volto e competenze intellettuali a garanzia di una destra considerata politicamente illegittima e inaffidabile sul piano della tenuta democratica; di essere, in altri termini, una sorta di alter ego mass-mediatico del capo e dei dirigenti del maggior partito post-fascista italiano.
Di qui il frequente confronto, e la contrapposizione tra le sue posizioni e il suo percorso intellettuale e quello del ben più radicale, eccentrico e anti-istituzionale Alain de Benoist; confronto dal quale il teorico della Nouvelle droite, nelle intenzioni dei critici, dovrebbe risultare 'vincitore' - se non altro per aver avuto il coraggio (intellettuale) di non essere diventato il "Veneziani di Le Pen".
Ma, nonostante gli attriti creati a bella posta tra i due e i veleni seminati a piene mani, Marcello Veneziani ha accettato di discutere alcuni aspetti del pensiero del teorico d'Oltralpe e di metterne in rilievo, con onestà intellettuale limiti e pregi.
Dottor Veneziani, vorremmo iniziare con una domanda preliminare: a suo modo di vedere il pensiero di Alain de Benoist possiede una qualche valenza rivoluzionaria? (Il termine "rivoluzionario" è quanto mai improprio per definire un pensiero che guarda al passato come alla sola bussola per orientarsi nel presente; che aborre il finalismo di molta storiografia di sinistra e la mistica del progresso ad esso connesso. Esso tuttavia dovrebbe risultare efficace per dare un'idea di cambiamento, di svolta radicale nell'universo politico-culturale della destra europea.) E poi: forse che l'anti-liberalismo, il rifiuto dei processi di globalizzazione, la critica alla mercificazione dell'esistenza non contengono in radice una forte carica di sovversione dell'esistente?
Mah, io ritengo che il pensiero di de Benoist si possa inscrivere in quella corrente di pensiero che fu definita rivoluzionario-conservatrice. La "rivoluzione conservatrice" è infatti un fenomeno che nasce sicuramente in un ambito culturale legato all'idea di tradizione; non però con la convinzione che la tradizione sia semplicemente la continuità rispetto al passato, ma che occorra, anzi, accettare le catastrofi del presente, i cambiamenti, anche radicali in atto. E quindi occorra accettare le intermittenze della storia. Credo quindi che "rivoluzione conservatrice" sia la definizione più comprensiva per quel movimento di pensiero di Nuova destra di cui appunto Alain de Benoist è esponente di primo piano.
Esistono, e sono documentabili numerosissimi punti di contatto tra le posizioni di settori della destra e della sinistra italiani su svariati campi di analisi: antiglobalismo, comunitarismo, attenzione alla tradizione, 'antiamericanismo', antiutilitarismo ecc. Lei saprebbe indicare un criterio di massima per districarsi tra posizioni apparentemente analoghe? O ritiene al pari di de Benoist che distinguere tra destra e sinistra sia divenuto un esercizio inutile, ozioso o addirittura antistorico?
Ritengo che destra e sinistra siano due categorie stanche, abbastanza logorate dal loro uso; e soprattutto abuso. Però credo che abbiano ancora una residuale attualità, per così dire, se le consideriamo, soprattutto nel gergo della contemporaneità, per identificare due sensibilità di tipo diverso.
Credo che esista una sensibilità che assegna valore primario alle origini, al radicamento; ed un'altra che assegna valore primario all'emancipazione, alla liberazione dalla radici. E credo che questi due atteggiamenti si possano definire ancora, con tutti i limiti e gli equivoci che le definizioni comportano, come di destra e di sinistra.
Questo, però non vuol dire che tra destra e sinistra ci sia un muro insormontabile: esistono infatti molte zone di confine e di attraversamento; e de Benoist ha cercato soprattutto di esprimere un pensiero riguardante proprio queste zone di confine. Quindi, ritengo che ci siano dei fondamenti di diversità tra due atteggiamenti che, ripeto, continuiamo per convenzione a definire di destra e di sinistra; ma ritengo anche che al loro interno ci sia una circolazione di idee, una mobilità, una labilità di alcune direzioni di pensiero, che producono poi quei cortocircuiti di cui parla de Benoist.
Se è vero che il campo di analisi di Alain de Benoist riguarda non più l'analisi politologica, appunto, ma "l'immaginario sociale" (Marialba Pileggi, in "Critica marxista", n. 2, 2002) verrebbe da chiedersi se molta xenofobia (quasi) di massa, presente in larghi strati di società settentrionali (padroncini, piccoli imprenditori ecc.), vicini alla Lega Nord, possa essere fatta risalire, magari per vie non lineari alla semina culturale della Nuova destra e di de Benoist in particolare.
Io credo che come tipo umano e come concezione del mondo chi esprime questa forma di egoismo becero di gruppo sia esattamente agli antipodi del pensiero di Alain de Benoist. Questi esprime una dimensione comunitaria che non è una dimensione di chiusura tribale e localista. Ed esprime anche una sorta di attenzione verso le identità e le differenze: di conseguenza non considera chi non è della stessa comunità come un nemico da abbattere; ma lo rispetta proprio in quanto portatore di una sua cultura e di una sua differenza. Quindi, non mi pare di poter ravvisare un nesso tra una visione che è fondamentalmente utilitarista ed economicista - fondata appunto sul fatto che i paesi arretrati meritano di restare sprofondati in un cuore di tenebra; mentre i paesi moderni e sviluppati meritano di essere salvaguardati - e chi viceversa, come de Benoist svolge una dura critica alla società economicista, al mercantilismo e a tutte quelle forme di egoismo che costituiscono un po' il fondamento psicologico della società mercantile.
Tuttavia, alcuni osservatori di cose politiche hanno intravisto dietro il differenzialismo di de Benoist tracce non superficiali di razzismo culturale. Lei trova che un'accusa di tal fatta - che tuttavia origina da motivazioni apparentemente nobili (preservazione delle culture altre, del pluralismo ecc.) - sia operazione del tutto campata in aria o abbia una qualche giustificazione?
A me sembra un'accusa largamente ingiustificata. Nel senso che oggi l'unica forma di razzismo che circola in Occidente è il razzismo fondato sulla superiorità dello stesso Occidente rispetto alle altre culture. Alain de Benoist è un critico di questo occidentalismo e un critico abbastanza radicale: quindi mi sembra che da questo punto di vista la difesa delle differenze non sia la difesa della superiorità delle razze, ma della differenza delle culture. E credo che tra differenza e superiorità ci sia un abisso... Così come tra culture e razze credo esista una grandissima differenza.
Ritengo che tutto sommato l'accusa di razzismo che si rivolge a de Benoist sia un'accusa infondata, non corrispondente al suo pensiero reale.
Potrebbe chiarirci quali sono i punti di contatto, se vuole le analogie o le differenze fra il suo comunitarismo - cioè del politologo e intellettuale Marcello Veneziani - e quello del pensatore francese?
Il mio comunitarismo è un tentativo di pensare la comunità nella realtà odierna: cioè tra gli italiani di oggi, gli europei di oggi, gli appartenenti alle comunità regionali di oggi.
Il tentativo di de Benoist è invece di immaginare una comunità prossima ventura, che tragga le sue fonti di legittimazione non dal vivere, diciamo, in uno stesso luogo, mediante un insieme di tradizioni; ma da un progetto di comunità fondato su alcuni eventi - quali possono essere feste e scelte culturali; nonché su identità di idee, di vedute. E quindi su una prevalenza di contenuti, diciamo così, ideologici.
Io temo che il comunitarismo di de Benoist abbia un forte fondamento ideologico: perché nasce da una giusta apprensione nei confronti di un comunitarismo che rischia di essere naturalistico: fondato cioè soltanto su sangue e suolo. Da questo punto di vista, tuttavia trovo apprezzabile il suo sforzo di emancipare la comunità da riferimenti radicati e molto importanti; però dall'altra parte c'è il rischio che il suo comunitarismo sfumi in una formula sociologica, o addirittura in una forma di illuminismo rovesciato: per cui le comunità altro non sono che delle società di pensiero estese. E dunque, da questo punto di vista mi pare di ravvisare nella sua analisi un punto debole. Così come vedo in lui molta attenzione agli scenari venturi, vedo minore attenzione alla società quale essa è realmente oggi.
E' quindi corretto a suo parere definire il comunitarismo di de Benoist una sorta di "terza via": ovvero un'alternativa a marxismo e liberalismo (a quelli che egli definisce gli opposti totalitarismi dalla comune radice monoteistica)?
Sì, anche perché lui parte da un'analisi, che poi fu quella di Dumont, secondo cui alla base del collettivismo marxista c'è un fondamentale individualismo. Quindi, la visione comunitaria per de Benoist è una visione che si oppone ad una cultura che, in blocco, lui definisce liberal-marxista o liberal-collettivista. Egli, in altri termini vede una sostanziale unità, pur nella diversità di approdi, tra la cultura liberale e la cultura marxista.
Lei ritiene che il neopaganesimo debenoistiano e il suo antimonoteismo viscerale possano costituire, ancora oggi elementi di novità nel panorama politico-culturale della destra italiana ed europea; o che al contrario siano elementi inerti e privi di potenziali sviluppi?
Io vedo in questi elementi un riaffiorare di quell'intellettualismo, o di quell'illuminismo rovesciato, di cui prima parlavo: perché contrapporre, diciamo così, la civiltà pagana alla civiltà da cui noi concretamente discendiamo da più di venti secoli, cioè quella cristiana, significa avere un'immagine molto astratta delle nostre radici culturali. Non si può pensare al radicamento e ritenere che duemila anni siano stati una specie di errore; ritenere che l'essenza, l'origine si debba ravvisare soltanto nella società pre-cristiana, nel mondo greco-romano e quindi nel paganesimo.
Io credo che questo sia un forte limite. Così come non si può stabilire un nesso automatico tra il monoteismo e il totalitarismo - come fa de Benoist: perché dire che il totalitarismo è figlio del monoteismo significa non spiegare come mai il totalitarismo si è realizzato soltanto con la Rivoluzione francese e poi nel Novecento con i regimi totalitari, e non prima: quando la società era sicuramente più permeata di valori e gerarchie di tipo cristiano.
Quindi, c'è una debolezza in questo impianto teorico: non si considera, in altre parole che il totalitarismo non nasce dal cristianesimo, ma dal trasferimento del cristianesimo dal cielo sulla terra. E' questo l'atto: infatti lo stesso de Maistre diceva che il vangelo fuori dalla Chiesa è veleno. Quindi, trasporre il cristianesimo in una dimensione storico-sociale significa produrre dei mostri. Tuttavia, bisogna capire che c'è stata questa trasposizione: cioè non bisogna ritenere automatico il passaggio dal cristianesimo al totalitarismo.
Insomma, ritengo che in de Benoist ci siano alcune debolezze concettuali abbastanza evidenti che tradiscono una sua visione abbastanza intellettualistica della tradizione. Per lui, la vera tradizione è quella perduta nei secoli: magari è quella celtica. E noi che veniamo dalle cattedrali, che cosa abbiamo fatto per duemila anni: solo intrattenimento?
In molti a sinistra ritengono che il pensiero di de Benoist sia fascista o cripto-fascista. Non tutti, per la verità: un intellettuale 'anomalo' come Pietro Barcellona giudica abbastanza interessanti alcune sue posizioni; mentre lo stesso Francesco Germinario, autore di un testo sul teorico francese, ha scritto che classificare come fascista il suo pensiero è "intellettualmente disonesto". Una posizione, quest'ultima condivisa da due intellettuali di destra, Maurizio Cabona e Marco Tarchi, per i quali de Benoist sarebbe vittima della "reductio ad Hitlerum" - comune alla stragrande maggioranza degli intellettuali di destra. Un pensatore controverso, si direbbe che riscuote simpatie e antipatie in entrambi gli schieramenti politico-partitici...
De Benoist viene, diciamo così, iscritto nel registro degli indagati del fascismo, perché il suo è un pensiero sulla terza via: è, cioè, un pensiero anti-materialista; pensa ad un'ipotesi al di fuori del liberalismo e del collettivismo, e di conseguenza viene inserito in quell'alveo. Invece, il suo pensiero è rivoluzionario-conservatore; e, come è noto, il fascismo fu a suo modo una rivoluzione conservatrice.
Si dimenticano però alcuni particolari: in de Benoist non c'è nessuna pulsione di guerra, che invece caratterizza in modo fondamentale il fascismo; non c'è alcuna pulsione totalitaria e neanche autoritaria; c'è il riconoscimento pieno della libertà; c'è persino un iper-criticismo, che mi sembra del tutto contraddittorio col "credere, obbedire, combattere". Mi sembra, in sintesi che ci siano molti elementi che allontanano de Benoist dal fascismo.