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Il sentimento dei luoghi
Memoria e vita dei borghi abbandonati della Calabria

di Vito Teti


Il Mediterraneo, come ricorda Predrag Matvejevic', è un "immenso archivio e un profondo sepolcro".
Alle città visibili, ai ruderi, alle rovine, ai luoghi senza segni apparenti di storia e di vita corrispondono molto spesso città sotterranee non sempre visibili, non ancora emerse, ancora sepolte, frammenti, schegge, resti e memorie di universi sommersi. In Calabria ruderi e rovine non custodiscono soltanto tracce di un passato glorioso, conosciuto nelle sue linee essenziali.
Nascondono o mostrano anche segni di una storia poco nota, rinviano a paesi cancellati dalla geografia, attestano eventi e episodi ignorati, ma non per questo meno importanti per la costruzione critica di un'identità plurale, controversa, delle popolazioni.
Camminiamo e guardiamo, riguardiamo i luoghi della Calabria.Le rovine protostoriche che affiorano sempre più ricche e numerose e le rovine magnogreche, fra le più antiche dell'Europa continentale. Le rovine medievali e quelle di epoca moderna, e ancora i paesi abbandonati nel corso dei secoli per le ragioni più varie. Le costruzioni vuote e cadenti di un mondo in movimento (case coloniche, case cantoniere, case della riforma agraria, ecc.) e le rovine "industriali" (mulini, fabbriche di liquirizie, oleifici, ecc.) e ancora quelle postmoderne dei tanti nonluoghi lungo le coste. Le rovine dell'antica Pentadattilo e le rovine di Saline Joniche, che si guardano a breve distanza, danno il senso di una storia di lunga durata.
La Caloria appare - e questa è soltanto un'immagine di una storia complessa e controversa, un'unica grande rovina, una "grande incompiuta".
L'incompiutezza (l'indefinitezza, la precarietà) è un tratto distintivo della geografia, del paesaggio, dell'antropologia di una "terra in fuga".
In epoca moderna i ruderi e le rovine del Sud d'Italia e della Caloria costituiscono, soprattutto a partire dalla "scoperta" di Pompei, un richiamo eccezionale per le élite intellettuali europee, una tappa obbligata del Gran Tour. All'ammirazione e al fascino per la bellezza e la semplicità del classico si sovrappongono spesso la delusione e lo smarrimento per lo stato di abbandono in cui versano i monumenti dell'antichità, un sentimento di profonda melanconia di fronte allo spettacolo desolante dei resti del passato, e l'amarezza per la caducità delle opere dell'uomo. Generazioni di viaggiatori provenienti dai luoghi freddi, chiusi e ombrosi del Nord per guarire dall'"affezione melanconica" spesso hanno proiettato il loro sguardo sulla realtà osservata. Apparentemente in modo paradossale, le rovine dell'antichità magnogreca e romana hanno finito con l'alimentare la malattia degli osservatori esterni. La melanconia assegnata alla Calabria e ai calabresi da una tradizione di sguardi risalente al Cinquecento è legata alle catastrofi, alle rovine, ma anche alla proiezione dello stato d'animo dei viaggiatori, al cortocircuito determinato dall'incontro tra sentimento della fine di chi osserva le condizioni di vita delle popolazioni osservate.
Le rovine della Caloria talvolta sono inserite in un cotesto di devastazione e di abbandono, in luoghi segnati dalla malaria e dalla miseria, altre volte fanno da sfondo alla bellezza del paesaggio. Ed allora è il rimpianto del tempo passato, delle bellezze svanite, del paradiso perduto. Con il terremoto del 1783, le nuove rovine, osservate e raffigurate quasi in "presa diretta", interpretate anche con il terrore e lo sgomento delle popolazioni, assurgono a segno di "fine del mondo", diventano ferite mai guarite, memorie tangibili di una storia dolorosa, di un evento che segna ancora oggi il paesaggio, la cultura, la religione, la mentalità delle persone. Ancora oggi i ruderi di quel terremoto e di altri eventi catastrofici che si succedono nel tempo, i siti degli antichi abitati, sono luoghi di ritorno, di celebrazioni, di culto e del "ricordo".
La geoantropologia (non l'archeologia, non l'estetica) dei paesi abbandonati racconta storie lontane nel tempo, ma anche ferite ancora aperte, determinate da terremoti, alluvioni, frane, malaria, siccità, difficoltà di reperire l'acqua potabile, e da migrazioni lungo le coste ed oltreoceano, che si sono verificati negli ultimi cinquant'anni e spesso negli ultimi anni, sotto i nostri occhi distratti e indifferenti, sotto l'effetto narcotizzante della modernizzazione e della mondializzazione. Le case ancora in piedi e sventrate, i muri divelti e ricoperti di erbe e spine, le strade pietrose e silenziose raccontano storie recenti e minute che abbiamo cercato di guardare e di ascoltare. Storie che annunciano e presentificano il rischio di una fine più generale e devastante.
Numerosi paesi delle Serre, dell'Aspromonte, dell'alto e del basso Jonio, dell'alto e del basso Tirreno si svuotano giorno dopo giorno. Ogni centro abitato ha orami una sua parte vuota, morta; la vita delle persone che resistono diventa sempre più difficile, problematica, incomprensibile. In passato la Calabria appariva, come nota Predrag Matvejvic', "un'isola senza mare", e oggi corre il rischio di trasformarsi in un'isola senza un retroterra con cui comunicare e dialogare. Un tempo le zone interne della Calabria sono state lontane dal mare, mentre oggi sono i centri sorti lungo le coste saccheggiate e violentate, i paesi-palafitte, i villaggi-loculi a presentarsi come distanti e separati da quei luoghi dove per secoli si è svolta la storia delle popolazioni, dove si è formata nel tempo la loro cultura e mentalità, dove si è affermata una tradizione religiosa di cui attestano chiese, monasteri, tesori artistici spesso sconosciuti e una abbandono.
Le rovine sono sempre un sintomo del disinteresse e delle dimenticanze degli uomini. La storia dei paesi calabresi e contrassegnata da incompiutezze, da promesse sempre rinviate a mai mantenute, da lavori pubblici avviati e sempre sottoposti a varianti e a varianti delle varianti, con enorme sperpero di danaro. Sulle catastrofi della regione e del Mezzogiorno d'Italia sono stati in molti a costruire le loro fortune. Le rovine moderne e recenti lungo le coste appaiono più inquietanti e perturbanti di quelle del passato.
E, nonostante tutto, quanti sono nati e cresciuti nei paesi abbandonati mantengono legami sottili e complessi con i luoghi perduti, per scelta o per necessità. La loro memoria appare spesso imprigionata tra i muri che ancora si alzano verso il cielo. La loro memoria è vita. Feste e riti che vedono come protagonisti gli antichi abitanti o i loro discendenti si svolgono negli ultimi anni tra i ruderi, le rovine, le case vuote, i muri imprigionati dai rovi della vecchia Cerenzia, a Nicastrello (nel territorio di Capistrano), a Papaglionti (frazione di Zungri), nell'antica Brancaleone, ad Africo antico, e nell'antica Pentadattilo. Nel giorno del ritorno, del ricongiungimento, della memoria e della nostalgia i paesi abbandonati perdono di nuovo il loro silenzio, riacquistano voce, inviano nuovi colori e nuove onde sonore. Le persone che vi ritornano per le feste si abbracciano, raccontano, visitano le vecchie abitazioni. Sono dei superstiti, dei sopravvissuti a una catastrofe. Sembrano volersi accertare che in quelle mura, in quelle case, in quelle strade il loro passato non è stato un sogno. La pietas di coloro che tornano alimenta la speranza. Le feste nei paesi abbandonati costituiscono un grande esorcismo contro la morte, affermano un nuovo bisogno di vita.
Da un lato i ruderi ingenerano un senso di impotenza rispetto alla forza devastante della natura e appaiono in una sorta di inevitabilità (senza le rovine non ci sarebbero svolgimento, storia, successione), dall'altro essi restano i segni, le ferite, le metafore di ciò che il tempo non ha del tutto cancellato. Costituiscono vie ed itinerari che ci legano al passato. Molte persone vivono ancora tenacemente nei paesi che si vanno giorno dopo giorno spopolando, e sognano una nuova vita per la propria comunità. Nel corso dei nostri viaggi abbiamo ascoltato le memorie, i racconti, le nostalgie di coloro che hanno vissuto la fine del mondo, e al contempo abbiamo registrato volontà di resistere alla perdita di memoria, alla cancellazione del presente e del futuro. Abbiamo visto che i ruderi continuano in qualche modo a parlare, a vivere, a raccontare: rivelano ancora una nostalgia della vita. I paesi abbandonati sono ciò che saremo; sono fantasmi, favole, leggende di cui non possiamo liberarci. I ruderi e le rovine sono le reliquie di un antico universo, di un corpo frantumato e disintegrato. I resti-reliquie attestano una morte, ma conservano una potente sacralità, indicano una possibile rinascita.
La prospettiva che ci ha mosso in questo viaggio è che in paesi abbandonati, i ruderi, le rovine non parlano soltanto di morte, di un lutto che permane, ma anche della speranza di una nuova vita che, nonostante tutto, senza retorica e senza in autentico rimpianto, può essere affermata.
Quello che tentiamo di raccontare è un particolare e ineffabile sentimento, che abbiamo pensato di chiamare sentimento dei luoghi.



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