Tutto il mondo si chiedeva come sarebbe stata New York un anno dopo quel terribile boato che uccise circa tremila persone (questi almeno i numeri ufficiali) e che polverizzò i grattacieli simbolo della modernità e della grandezza come se fossero castelli di sabbia. In questo primo anniversario dell'undici settembre, le immagini dei media e dei giornali ci hanno fatto vedere la commozione, il dolore ma anche la forza e l'orgoglio della gente accorsa a Ground Zero per gridare al mondo che l'America non dimenticherà mai.
Così come l'anno scorso ho ammirato la grande capacità di reazione di New York - lo spirito di solidarietà della gente, l'efficienza delle forze dell'ordine, l'alto livello di volontariato, il patriottismo - oggi mi colpiscono la solennità e al tempo stesso la semplicità delle commemorazioni - le preghiere, le candele, i fiori, i rintocchi delle campane, le pause di silenzio e la lettura di quegli interminabili nomi e cognomi dagli accenti latini, italiani, asiatici e arabi, specchio inequivocabile di una società sempre più multietnica e multirazziale.
Un anno dopo, New York ricorda ma non si ferma, si commuove, ma decide di andare avanti come se fosse un giorno come tanti altri. E difatti, nonostante l'inverosimile silenzio che ha avvolto la città alle 8:46, istante in cui il primo aereo si schiantava sulla torre nord, tutto si è svolto normalmente. Forse a guardar bene si notava un po' meno traffico per le strade e meno gente per le metropolitane. Certo il forte vento, che, nemmeno a farlo apposta, ha soffiato impetuoso per tutta la mattinata, ha contribuito ad avvolgere la città in un'atmosfera un po' tetra e sinistra. Ma quasi tutti hanno preferito andare a lavorare, le scuole sono rimaste aperte, così come la maggior parte dei ristoranti e dei negozi. Solo la borsa di Wall Street ha aperto più tardi per permettere lo svolgimento delle cerimonie nella lower Manhattan.
Ma al di là delle apparenze, è difficile indovinare ciò che prova e pensa veramente la gente qui a New York. Per chi ha perso i propri cari é ovvio che l'undici settembre rimane e rimarrà sempre innanzitutto un giorno di lutto e dolore. Ma il dolore ha anche risvegliato in molti un maggiore bisogno di umanità, di amore e di tolleranza. Per tanti versi la grande mela è diventata un posto migliore dopo l'undici settembre; il cosiddetto New York attitude, caratterizzato dalla scortesia e l'impazienza, ha lasciato spazio ai lati migliori del carattere americano. Si reclamano spazi comuni e centri sociali in ogni quartiere, si cerca di stare di più con gli amici e la famiglia, si passa più tempo fuori a contatto con la natura, mentre continua a crescere il numero delle associazioni di volontariato. L'esempio più visibile di tale trasformazione sono le piazze dove centinaia di ragazzi si riuniscono spontaneamente ogni sera per parlare, stare insieme e, sempre più spesso, per protestare.
Ma il cambiamento più significativo di New York riguarda la crescente partecipazione della gente, soprattutto dei giovani, alla vita politica della città. Nel commemorare la tragedia, l'undici sera circa mille ragazzi di età media tra i 15 e 25 anni hanno scelto di partecipare al concerto organizzato da Third World Within, un movimento progressista nato da un paio d'anni a New York per combattere il razzismo e l'imperialismo nel mondo. Gli organizzatori, tra cui Ujvil Aggarwal, una mia amica indiana, hanno voluto onorare le vittime dell'attacco gridando al tempo stesso no alla guerra e al razzismo. Organizzato nell'auditorium di Cooper Union, vicino Astor Place nell'East Village, il concerto ha visto la partecipazione di artisti, cantanti e ballerini di tutto il mondo, i quali attraverso l'arte e la musica hanno propagato le loro tradizioni e la loro cultura, mostrando che tutte le civiltà hanno un loro fascino e una loro importanza. E tra una esibizione e l'altra sono saliti sul palcoscenico decine di ragazzi e ragazze spinti dal bisogno di esprimere le proprie idee, raccontare le proprie esperienze e riflettere sul significato politico di 9-11.
A un anno dall'attacco gli americani cercano nuovi modi per esprimere la loro opposizione al programma di guerra lanciato da Bush. Quaranta famiglie delle vittime hanno fondato l'associazione Families for Peaceful Tomorrow, parlando apertamente contro la guerra e insistendo che non vogliono vendetta ma giustizia. Un altro nuovo gruppo newyorkese, Racial Justice/9-11, è nato con l'obiettivo di organizzare le comunità di colore contro la guerra al terrorismo in America così come all'estero. A livello nazionale, la National Student Coalition for Peace and Justice e ANSWER (Act Now to Stop War and End Racism) sono riusciti a mobilitare lo scorso Aprile a Washington più di centomila persone e c'è motivo di credere che il numero dei partecipanti alla prossima manifestazione del 26 Ottobre sia di gran lunga più grande.
Sin dalla tragedia si è detto e ripetuto che niente sarà più come prima, che l'attacco dell'anno scorso ha cambiato per sempre il corso della storia. Bush nel suo discorso al Pentagono ha ribadito alcuni dei punti che aveva sostenuto sin dall'inizio dell'attacco. Come un anno fa, richiamandosi alla tradizione dei Padri Fondatori e svuotandola del suo significato politico, ha parlato eloquentemente dell'importanza della libertà, della democrazia, e del libero mercato. Con una disinvoltura che farebbe impallidire anche il più spudorato Berlusconi, ha declamato il "nobile" ruolo degli Stati Uniti nel mondo a favore dei diritti umani e dei valori democratici contro dittatori e terroristi (che dire dell'appoggio americano a dittature come quella dell'Arabia Saudita, del Cile, o dello stesso Afghanistan dei Talibani, o delle politiche imperialiste condotte nell'America latina e in Africa?). Infine, con forza ha ribadito che l'America è in guerra, e che costi quel che costi sconfiggerà il nemico.
Ma appare sempre più chiaro che la storiella dei buoni contro i cattivi, cavallo di battaglia di Bush, comincia a perdere consensi. Un anno dopo l'attacco gli americani si aspettavano risposte e risultati concreti. Invece tutto rimane irrisolto. La guerra contro l'Afghanistan, sebbene sia riuscita a destabilizzare parzialmente il movimento di Al Qaeda è fallita clamorosamente, lasciando alla gente del posto lo stesso caos, la stessa corruzione, la stessa violenza che esisteva durante il governo dei Talibani, senza contare la distruzione e le perdite umane causate dalle cosiddette bombe intelligenti che inevitabilmente accresceranno il risentimento dei paesi arabi nei confronti dell'occidente. A dispetto delle minacciose promesse di Bush, non solo Bin Laden non è stato catturato ma il terrorismo rimane una minaccia più che mai concreta. Nonostante i miliardi spesi per rafforzare l'intelligence americana, i casi Antrax rimangono irrisolti e ancora non si è scoperto (o non si vuole dire) che cosa sia veramente successo sul volo diretto a Santo Domingo. E paradossalmente, in nome della difesa della libertà americana, gli americani si ritrovano a vivere a casa loro la più grave repressione dei diritti e delle libertà civili mai vista dal tempo della guerra fredda di McCarthy; basti pensare al Patriot Act, finora sempre respinto in quanto ritenuto incostituzionale, grazie al quale il governo federale può liberamente accedere ai dati personali privati di ciascun cittadino, inclusi dati bancari, carte di credito, e-mails, conversazioni telefoniche, corsi di studio e di ricerca.
Come hanno notato i redattori di The Nation nell'editoriale dedicato all'anniversario dell'undici settembre, la maggior parte degli americani è stata trascinata in un consenso passivo in parte per la paura reale e più che comprensibile di ulteriori attacchi e in parte grazie ai media che hanno appiattito al massimo il dibattito politico, spalleggiando Bush nel suo tentativo di criminalizzare chiunque esprimesse dissenso con la solita accusa dell'anti-americanismo. Inizialmente, la reazione istintiva della gente è stata di shock, orrore, rabbia e desiderio di vendetta. Recentemente, comunque, il crescente unilateralismo e l'arroganza della politica estera americana hanno determinato un netto cambio di opinione negli schieramenti popolari. Secondo i National Public Radio Polls pubblicati dal New York Times il 5 Agosto scorso, in netto contrasto al 60% dei consensi e il 28% dei dissensi dello scorso Marzo, oggi solo il 36% degli Americani sostiene a pieno il governo, mentre ben il 56% disapprova apertamente la linea dura di Bush. La diffidenza cresce e sono sempre di più coloro che si rivolgono alla stampa alternativa per informazioni e analisi politiche. Per esempio, la tiratura di The Nation, una delle riviste storiche della sinistra americana, è cresciuta da 95,000 copie nel 2000 a 120,000, nel 2002, il numero più alto finora raggiunto. Allarmati dalle crescenti critiche internazionali alla politica di Bush, anche i principali giornali americani cominciano finalmente a mettere in discussione le azioni del governo. Il numero di Agosto di Newsweek, per esempio, conteneva uno special di undici pagine dedicato ai probabili crimini di guerra commessi dai soldati americani in Afghanistan, mentre il New York Times ha apertamente criticato la politica isolazionista di Bush.
Nella imminente prospettiva di un'invasione contro l'Iraq appare sempre più chiaro che la guerra al terrorismo è diventata una comoda opportunità per l'avanzamento della supremazia militare, economica e politica americana. Come ha giustamente notato Susan Sontag "dichiarare guerra al terrorismo significa per un governo poter fare quel vuole". Ma sono sempre di più gli americani che gridano: "Not in our name!" (Non nel nostro nome). A un anno dalla tragedia i newyorkesi continuano ad essere uniti nel rispetto delle vittime e nell'amore per la loro città ma sono più che mai divisi sulla strada politica da percorrere. Per tutti rimane l'angoscia del futuro, un futuro sempre più incerto e difficile. Ma come si legge su uno degli slogan del movimento progressista: "Another world is possibile." (Un altro mondo è possibile). Lo era prima dell'undici settembre e lo è ancora.
(New York, 14 Settembre, 2002)