Parlare del Teatro Politeama di Catanzaro è come descrivere l'identità di una città che ha sempre rinnegato la propria storia per abbracciare il presente, demolendo ogni traccia del passato in cui riconoscersi. Sono evidenti e laceranti le tracce di questi interventi in tutto il centro storico, sventrato, oltraggiato, snaturato, disintegrato in un passato, anche recente; solo da qualche anno ha iniziato a farsi strada qui il concetto globale del recupero.
La storia moderna, anzi contemporanea, del teatro a Catanzaro inizia con l'edificazione del Teatro Francesco I, successivamente battezzato Comunale. Vi recitano tutte le più grandi compagnie dell'epoca, in una città già prestigiosa sede di Corte d'Appello delle Calabrie e quindi importante polo giudiziario ed amministrativo della regione. Notazione doverosa questa, perché il teatro segue sempre l'importanza del posto che lo ospita. Anche Cosenza si dota di un prestigioso teatro quel "Rendano" oggi diventato il più importante Teatro calabrese grazie al riconoscimento come Teatro di Tradizione. I Catanzaresi invece sembrano disinteressarsi al loro quando, alla vigilia del II conflitto mondiale, viene buttato giù per dotare la città di una piazza idonea ad ospitare le adunate, tanto care al Duce. Prima volta che muore il Teatro a Catanzaro. Dico Prima perché c'è una seconda volta, quando viene demolito il Politeama nel 1991 (se non ricordo male) struttura straordinariamente funzionale per nulla fatiscente in stile coloniale, con tutti i presupposti per essere dichiarato bene di interesse storico-architettonico e quindi sottoposto a vincolo, che aveva ospitato negli anni '50 importanti Stagioni di Prosa organizzate nientemeno che dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (all'epoca non c'erano ancora le Regioni) e comunque che si prestava in maniera più che adeguata a soddisfare le esigenze di una piccola cittadina imbolsita come Catanzaro. Lo scorso settembre, Gianni Amelio, invitato da qualcuno a parlare del nuovo Politeama, si soffermava invece, a ricordare proprio i bei tempi passati al vecchio Politeama, come spettatore attento, e ad evocare quelle magiche atmosfere, con il tetto che si apriva nelle notti d'estate per fare entrare aria fresca e sollevare lo sguardo su verso il cielo.
Questo nuovo Politeama dunque non nasce come atto d'amore per il teatro.
Tutt'altro. Ma siccome il varo della nave, anzi dell'astronave è pronto, si cerca di capire, ed in questo da cittadini e da operatori del settore abbiamo diritti e doveri, come debba funzionare al meglio.
Non ci ha sorpreso, come se fosse scontato agire in questi termini, l'atteggiamento dell'amministrazione comunale che non ha prodotto lo sforzo ulteriore che si rendeva necessario per dare fondamenta solide a quest'edificio; condurre o incaricare, (l'avremmo fatto tutti a costo zero nel riconoscimento di un cammino che non può essere che comune) un'indagine preliminare per capire il mercato di riferimento in cui si sta andando ad operare.
Un teatro da 1000 posti in centro città fa porre il nostro capoluogo come punto di riferimento culturale in regione e fuori regione
Ma bisogna confrontarsi con quello che succede oggi: Catanzaro si presenta come un capoluogo retrocesso dietro Cosenza e Reggio che la sopravanzano in qualità della vita ed in offerta culturale, ed una provincia nuova come Crotone, smaniosa di protagonismo.
La città si presenta, da qualche anno a questa parte, con una stagione di prosa al Teatro Masciari, organizzata dalla Cooperativa Nuova Ipotesi con la collaborazione di Teatri Calabresi Associati ed Ente Teatrale Italiano, che presenta non più di 100 abbonati su oltre novantamila abitanti, con spettacoli di fama nazionale, a prezzi comunque più che accessibili.
Di contro Amministrazione Comunale e Provinciale che hanno propinato gratuitamente spettacoli nazional-popolari in tendoni decisamente poco decorosi, montati nel salotto della città, oppure allocati in quel recinto di asfalto della cosiddetta Area Magna Grecia.
Questa politica di spettacolo, che qualcuno ha anche voluto far passare per cultura, si è invece sostituita completamente ad essa, finendo per trasformare l'approccio che l'amministrazione deve o dovrebbe dare al genere, non solo privando e limitando del sostegno l'iniziativa privata, tradizionale motore trainante del settore, ma anche facendo scomparire la figura dello spettatore pagante, che opera una scelta.
In questi mesi, poi, abbiamo assistito alle uscite sulla stampa di numerosissimi interventi di molti carneadi, per lo più provenienti dal mondo della politica, sull'utilizzo di questa struttura, sulla gestione, su cosa si dovrebbe fare. Si è parlato e straparlato come si usa, nella nostra sonnacchiosa città, spettegolare sulla gloriosa squadra di calcio, dell'allenatore, e se questi è o meno un personaggio di nome, che legami ha, se ha carattere.
Sono entrate in campo anche le associazioni della buona borghesia salottiera, che dalle pesche di beneficenza si sono improvvisate promotrici di incontri, che però non hanno giovato a niente ed a nessuno se non a capire quante poche e fragili idee si abbiano.
Bassissimo è stato il livello del dibattito cittadino, nella sostanza poi praticamente inesistente, se si pensa che i soggetti titolati sono stati tenuti in scarsa considerazione. Si è discusso, ad esempio su questo modello di forma giuridica dell'ente di gestione, la Fondazione, che effettivamente si potrebbe rivelare molto valida qualora vi entrassero a far parte, oltre al Comune, alla Regione ed alla Provincia, anche soggetti privati finanziatori. Ma il panorama dell'imprenditoria locale non è uguale a Verona od a Milano, dove esistono le più grosse fondazioni d'Italia, e vi partecipano gruppi di livello internazionale come Agnelli e Pirelli.
Un'altra possibilità da verificare, perché ad oggi lo schema di statuto è stato solo approvato dal Consiglio Comunale, era quello di considerare l'apporto dei privati anche in natura, sì, in servizi culturali, che il privato potrebbe conferire alle attività. Ipotesi per nulla peregrina visto che in città esistono compagnie e cooperative che operano a livello professionale da svariati anni: oltre alle sigle già citate, è il caso di ricordare la "Compagnia Ipotesi D2" che, dall'11 al 28 Aprile ha rappresentato lo spettacolo "Dolce Sintetico Show" al Teatro Politecnico di Roma. Insomma non mancherebbero le possibilità di fare riferimento alle forze esistenti, che pure sono di qualità, ma la volontà politica, placata la richiesta di informazioni, sembra lavorare ora in silenzio, raccogliendo gli input e valutando le strategie.
Questo della produzione culturale potrebbe e dovrebbe essere il riferimento per l'attività del Politeama, stravolgendo però le linee episodiche di programmazione culturale e di spettacolo oggi praticate, i cosiddetti grandi eventi, che solo per un giorno accolgono le masse.
L'immagine di una città è strettamente connessa alla sua produzione culturale; pensiamo a Milano ed al Piccolo, a Giorgio Strehler, a Napoli da Eduardo, al San Carlo, a De Simone, a Martone che, quando ha diretto il Teatro di Roma ha creato con l'India, un nuovo spazio, ma anche al lavoro di Battiato su Catania, e poi a quanto Antonioni e Fellini abbiano rappresentato per le loro città d'origine, Ferrara e Rimini.
Queste strutture e queste città sono diventate delle cattedrali, dei luoghi sacri, dei santuari, come, magari tra qualche decennio potrebbe diventare anche il Politeama, se si riuscisse nell'intento di far vivere culturalmente, il territorio, diventando una grande vetrina per tutta un'area, che si identifica in esso.
Partendo dalla città per passare dalla regione, per arrivare forse ad un bacino più grande: il Mediterraneo. Proporre il Politeama come centrale per tutti i paesi e tutte le culture rivierasche, anziché scimmiottare quella cultura centripeta che poco ci appartiene e che soprattutto niente conferisce in un processo di riappropriazione di un'identità culturale che dovrebbe essere la nostra meta, iniziare dunque una sprovincializzazione con un moto che non ci porta più a settentrione, ma verso Sud.
Per fare questi passi, è necessario riflettere però su come sia cambiata l'idea di teatro, di spettacolo, uscendo dallo stretto schema di genere, che, ad esempio vedeva il teatro, la danza, la musica come forme d'arte separate, per arrivare invece oggi al concetto d'arte totale, alla performance di teatro/danza/musica, alla fusione, all'interculturalità.
Due sono le strade: questa è ardita e stimolante, giovane, l'altra è quella dei vecchi tromboni sfiatati che aleggiano già sulla città, per proporci sonnolente versioni di vecchi classici, cui non aggiungono più niente, se non la noia.